Revista europea de historia de las ideas políticas y de las instituciones públicas
ISSN versión electrónica: 2174-0135
ISSN versión impresa: 2386-6926
Depósito Legal: MA 2135-2014
Presidente del C.R.: Antonio Ortega Carrillo de Albornoz
Director: Manuel J. Peláez
Editor: Juan Carlos Martínez Coll
MICHEL VILLEY: CRISTIANESIMO E DIRITTO
Francesco D’AGOSTINO*
Para citar este artículo puede utilizarse el siguiente formato:
Francesco d’Agostino (2014): “Michel Villey: Cristianesimo e diritto”, en Revista europea de historia de las ideas políticas y de las instituciones públicas, nº 7 (septiembre 2014).
Resumen: Las reflexiones sobre clasicismo difícilmente pueden encontrar aplicación en el mundo jurídico. No obstante, sí que son conceptos que nos pueden ayudar a comprender el pensamiento de Michel Villey. El positivismo jurídico ha sido objeto de un combate ideológico claro por parte de Villey. Con el solo positivismo resultan imperceptibles las causas finales, que son substituidas por las causas eficientes. La primacía del conocimiento es cambiada por la primacía de la praxis. Para Villey la filosofía más adecuada para la comprensión de la ciencia jurídica es la aristotélico-tomista. Sin embargo, para Villey resulta clara la destrucción del pensamiento jurídico clásico y de la filosofía realista. Los experimentos llevados a cabo para hacerla de nuevo florecer con otros planteamientos no han podido proporcionar los frutos deseados. Por otro lado, Villey advierte que la mezcla del Evangelio y del Derecho no conduce a otra solución que la de la corrupción del primero y del segundo. Para el profesor nacido en Caen el 4 de abril de 1914, San Agustín puso en su época de relieve y transmitió a la posteridad la injusticia del Derecho romano, al ser un derecho que excluía deberes fundamentales inherentes a la persona humana relacionados con la trascendencia. Sin embargo, Villey marcó sus distancias respecto al agustinismo político y jurídico y recaló en aguas para él más seguras, como las de Santo Tomás de Aquino.
Palabras clave: Michel Villey, Cristianismo, Derecho natural, San Agustín, Santo Tomás de Aquino, Jean-Jacques Rousseau, Hans Kelsen, Razón jurídica natural laica, Positivismo jurídico.
Resum: Les reflexions sobre classicisme difícilment poden trobar aplicació al món jurídic. No obstant això, sí que són conceptes que ens poden ajudar a comprendre el pensament de Michel Villey. El positivisme jurídic ha estat objecte d'un combat ideològic clar per part de Villey. Amb el sol positivisme resulten imperceptibles les causes finals, que són canviades per les causes eficients. La primacia del coneixement és canviada per la primacia de la praxi. Per Villey la filosofia més adequada per a la comprensió de la ciència jurídica és l'aristotèlic-tomista. No obstant això, per Villey resulta clara la destrucció del pensament jurídic clàssic i de la filosofia realista. Els experiments duts a terme per fer-la de nou florir amb altres plantejaments no han pogut proporcionar els fruits desitjats. D'altra banda, Villey adverteix que la mescla de l'Evangeli i del Dret no condueix a una altra solució que la de la corrupció del primer i del segon. Per al professor nascut en Caen el 4 d'abril de 1914, Sant Agustí va posar en la seva època de relleu i va transmetre a la posteritat la injustícia del Dret romà, en ser un dret que excloïa deures fonamentals inherents a la persona humana relacionats amb la transcendència. No obstant això, Villey va marcar les seves distàncies respecte al agustinisme polític i jurídic i va recalar en aigües per a ell més segures, com les de Sant Tomàs d'Aquino.
Paraules clau: Michel Villey, Cristianisme, Dret natural, Sant Agustí, Sant Tomàs d'Aquino, Jean-Jacques Rousseau, Hans Kelsen, Raó jurídica natural laica, Positivisme jurídic.
Il vecchio Goethe amava ripetere ‒dimenticando i suoi trascorsi di gioventù‒ che lo spirito romantico è uno spirito malato. In tal modo, egli ci ha dato una chiave ermeneutica essenziale per intendere quello che comunemente e correttamente si ritiene essere l'opposto del romanticismo: e cioè il classicismo e per liberare queste due categorie contrapposte dall'ipoteca scolastico-manualistica che grava su di esse, quella per la quale esse servirebbero unicamente a tratteggiare una particolarissima epoca della cultura europea, quella tardo settecentesca e proto-ottocentesca. Non è così. Spirito classico e spirito romantico sono due possibilità strutturali dello spirito e il loro corretto intendimento ci aiuta non solo a capire una fase della cultura europea, ma ben più in generale un modo antinomico di manifestazione dell'humanum. Il classicismo è ‒o comunque ha sempre voluto rappresentarsi‒ come la manifestazione dello spirito in quanto sano, intenzionalmente sano (tanto quanto il romanticismo si è sempre manifestato come espressione di uno spirito che intenzionalmente vuol porsi come malato). Il classicismo infatti è amore per la luce, l'equilibrio, la serenità, l'ordine, il logos,la compostezza, l'autocontrollo; il classicismo odia l'irrequietudine, la sproporzione, l'oscurità, la contraddizione, ogni forma di patetismo, l'irrazionalità, la stravaganza. E soprattutto il classicismo non riesce a comprendere la storia, che invece è tanto amata dal romanticismo. Non la comprende non perché la neghi (sarebbe questa un'evidente assurdità), ma perché la storia apre indebite speranze nel futuro e distrae dall'impegno nel presente; attraverso la storia, in altre parole, emergono tutte quelle dimensioni di negatività dello spirito (l'irrequietudine, la violenza, il fanatismo) contro cui lo spirito classico combatte senza tregua. Il romanticismo, invece, innamorato della storia come continuo incessante mutamento, creatore di valori, disprezza il presente, si immerge, nelle sue versioni conservatrici, nell'idolatria del passato o ‒nelle sue versioni rivoluzionarie‒ in quella del futuro: in un caso come nell'altro esalta la volontà, come forza creatrice che non tollera limite né misura e che non accetta di essere sottoposta ad alcun vaglio. E' per questo che la prospettiva biblica è irriducibilmente anti-classica: in essa al popolo eletto è indicata una meta, che potrà essere raggiunta solo alla fine dei tempi. Nella Bibbia, Dio riconosce la giustizia di Abramo a partire dalla fede che egli nutre nelle promesse divine. Promesse ‒osserva Villey‒ che si collocano in un tempo lontano e che sono fondamentalmente indefinibili.
« Tandis que la justice d'Aristote, métier du juge, s'accomplit dans le présent de chaque procès, le but de la justice biblique s'estompe dans le futur… » (Philosophie du droit, I volume, Paris, Dalloz, 1975, p. 112).
Abituati a pensare categorie come classicismo e romanticismo alla stregua di categorie artistico-letterarie, siamo difficilmente portati a applicarle ad una realtà come quella del diritto. Eppure, solo l'uso di queste categorie può aiutarci a comprendere fino in fondo il pensiero giuridico di Villey. Non solo perché nella storia della filosofia novecentesca del diritto Michel Villey incarna il classicismo, nella forma più caratteristica, quella aristotelica, ma anche perché, a partire dall'insegnamento di Villey, si manifesta con chiarezza quello che altrimenti sarebbe destinato a restare oscuro. Il positivismo giuridico, il grande paradigma contro il quale Villey ha sempre combattuto con tutte le sue forze, è una delle manifestazioni più subdole del romanticismo. Il suo preteso realismo (che nell'ottica positivistica fa tutt'uno col ripudio del paradigma del diritto naturale), il suo ridurre il diritto a un insieme di norme, cioè di regole di condotta, assieme all'esaltazione del carattere tecnico del lavoro del giurista (secondo la celebre formula kelseniana, che vede il diritto come una tecnica di organizzazione sociale) conducono a rendere impercettibile ‒agli occhi dei positivisti‒ quell'orizzonte delle cause finali, in cui si riassume, per Villey, lo spirito del classicismo giuridico, e a sostituirlo con l'orizzonte alternativo delle cause efficienti. Il primato della conoscenza è sostituito dal primato della prassi. I fini ‒ritenuti epistemologicamente ingiustificabili, una volta distrutta l'idea classica di natura‒ cadono fuori dall'ambito del sapere e vengono abbandonati ai philosophes: si attiva un intero orizzonte nel quale ideali sociali e intenzioni soggettive si mescolano arbitrariamente. La distinzione tra diritto e legge si perde e si perde ogni fiducia di poter classicamente determinare la giustizia dando a ciascuno ciò che obiettivamente gli spetta.
«Non c'è nulla ‒scrive Villey‒ che sia di per sé più assolutamente opposto al compito del diritto dell'ottica individualistica della filosofia moderna; e il positivismo giuridico… conclude in un sistema giuridico arbitrario e dittatoriale» (La formazione…, p. 228).
Come paradigma, il classicismo giuridico è tramontato ed è comunque, oggi, introvabile. Villey ne è pienamente consapevole, ma è altresì consapevole che esso resta, ciò non di meno, insuperato teoricamente.
In un'opera magistrale, La formation de la pensée juridique moderne, Villey ha ricostruito con attenzione partecipe le dinamiche che hanno portato alla crisi del classicismo giuridico. L'opera ha un indubbio carattere storiografico ed è esplicitamente dedicata a studenti di diritto. Ma possiede altresì un carattere squisitamente teoretico ‒ che peraltro Villey non esista a indicare nella breve prefazione alla quarta edizione: si tratta di individuare quale sia la filosofia più adatta a procurare alla scienza giuridica i fondamenti migliori. Questa filosofia, per Villey, è certamente quella aristotelica, per come essa è stata rivissuta, rimeditata e riformulata da S. Tommaso. Non che la cultura pre-cristiana non abbia elaborato affascinanti modelli alternativi a quello aristotelico: tale è stato ad es. il modello platonico, prima di Aristotele, o quello degli stoici, dopo di lui. Ma né il platonismo né lo stoicismo sono stati in grado, per Villey, di operare efficacemente per determinare il sapere giuridico nella peculiare forma per esso elaborata dai giuristi romani. Costoro, ne fossero o meno consapevoli, erano aristotelici: per essi il compito della iurisprudentia era esattamente quello che Aristotele attribuiva alla giustizia: il compito di determinare lo jus, il giusto presente naturalmente nell'ordine stesso delle cose, attraverso una ripartizione oggettiva dei beni esteriori e controversi tra i consociati. Una ripartizione mai determinabile in astratto, senza un'attenta interrogazione dei casi concreti emergenti; la ragione giuridica non è una ragione formale, ma dialettica, si nutre e si alimenta cioè della realtà e delle contraddizioni di cui questa appare intrisa, fino al momento in cui la controversia è sciolta e il giudice determina lo jus. Eppure, ad onta dei suoi indiscutibili meriti, il modello aristotelico-tomistico è entrato in una crisi, che definire epocale è sicuramente riduttivo. La formation de la pensée juridique moderne potrebbe avere, come titolo altrettanto corretto, La destruction de la pensée juridique classique. In quest'opera, dall'affascinante carattere composito e in qualche parte addirittura labirintico, così come negli scritti dall'impostazione più strettamente teoretica, Villey non offre al lettore alcuna particolare speranza di un ritorno al pre-moderno. Egli registra con evidente compiacimento le opere della scuola di Perelman o il rifiorire di scritti sulla topica giuridica, ma non li ritiene adeguati a indicare un mutamento di rotta nella modernità giuridica; sono tutt'al più lavori inspirés de quelque morceau de l'ancienne dialectique (Philosophie du droit, tomo II, Paris 1979, p. 246).
« Car le fait est là. La philosophie réaliste ‒au sein de laquelle fut engendré le droit romain classique et dans l'Europe médiévale la renaissance du droit‒ il n'en subsiste que des débris. D'autres philosophies l'ont recouverte et se sont assuré la maîtrise de la culture contemporaine. Périmées sont la dialectique, le droit naturel, l'analyse ancienne du droit positif » (Philosophie du droit, tomo II, p. 248).
Esiste una spiegazione adeguata del trionfo, nell'epoca moderna, del volontarismo giuridico? Villey ovviamente non prende in alcuna considerazione quella che viene proposta dagli stessi volontaristi, l'essere cioè il loro modello razionalmente superiore a quello aristotelico e meritevole quindi di sostituirsi ad esso. Una simile spiegazione, oltre che palesemente faziosa, è fragile perché ricalca le interpretazioni ottimistico-progressive della modernità, ampiamente screditate anche presso coloro (come Habermas) che ritengono sotto altri profili improponibili i modelli teoretici metafisici pre-moderni.
Le ragioni autentiche del trionfo del volontarismo non sono teoretiche; sono storiche. Villey, storiografo di vaglia, non ha difficoltà a individuarle e a ricondurle all'avvento prima e al trionfo poi del cristianesimo, inteso nell'estrema complessità della sua identità: come movimento religioso, come promessa di salvezza ultraterrena, come etica sociale, come sistema teologico, come prassi ecclesiale... in tutte le sue dimensioni il cristianesimo ha operato nella storia contro la corretta percezione del diritto e della scienza che lo assume a proprio oggetto.
Questa indicazione storiografica, che ritorna innumerevoli volte nell'opera di Villey, è paradossale, perché Villey ‒da teorico del diritto‒ è convinto che nel suo principio il cristianesimo non abbia nulla da dire contro il classicismo giuridico: ne sono prove ‒prove immensa e sconcertanti‒ da una parte il fatto stesso che il massimo teoreta della cristianità, Tommaso d'Aquino, abbia aderito completamente al pensiero aristotelico in tema di giustizia e dall'altra la costruzione plurisecolare, operata dalla Chiesa, del diritto canonico. Pure, come forza operante nella storia, il cristianesimo ha deformato il pensiero giuridico. Questo è ‒nell' insegnamento di Villey‒ un dato di fatto, intrinsecamente drammatico e dalle conseguenze epocali.
Villey è assolutamente convinto che in sé e per sé il cristianesimo non è antigiuridista. Come potrebbe esserlo del resto? Dio non ha creato un mondo irrazionale, arbitrario, governato da dinamiche esoteriche. Dio ha creato una natura e nell'ambito di questa ha creato l'uomo, destinandolo a vivere in essa, esortandolo a "utilizzarla". L'opera del giurista non in altro consiste che nel prendere sul serio la natura, per ripartire secondo giustizia tra gli uomini i beni esteriori. Della natura, e quindi della possibilità stessa del diritto, Dio è in qualche modo responsabile e garante. Ma, una volta detto questo, la rivelazione biblica ha ben poco da aggiungere. Il Cristo (Lc 12.14) non solo non spende mai parole su temi formalmente giuridici, ma anche esplicitamente rifiuta di assumere la funzione di giudice o di occuparsi della divisione dei beni temporali. Così come, dal suo insegnamento, se rettamente inteso, non si possono trarre indicazioni utili per la sapienza giuridica, non si possono nemmeno trarre indicazioni anti-giuridiste: se i lavoratori assunti all'ultima ottengono per la benevolenza del padrone la stessa retribuzione acquisita dai lavoratori assunti fin dalla prima ora, non per questo costoro possono accusare il padrone di ingiustizia:essi hanno comunque ottenuto esattamente quanto liberamente concordato. Carità e giustizia si muovono su piani diversi, confonderle, mescolarle, farle interagire è rovinoso. Cette mixture d'Evangile et de droit est la corruption de l'un et de l'autre (Philosophie du droit, vol. I, Dalloz, Paris, 1975, p. 132). La giustizia non può smarrire le proprie ragioni solo perché provocata dalla carità: Villey ricorda (forse con un po' di malizia) come la Bibbia, che innumerevoli volte stigmatizza i ricchi per la loro avidità e il loro egoismo, proibisce però al giudice di favorire il povero, senz'altra ragione che la sua povertà, quindi solo perché povero, nei confronti del ricco (Es., 23.3., Lev. 19.15). Nulla gli appare quindi più lontano da una corretta comprensione della giustizia della definizione di Pietro Lombardo: justitia in subveniendo miseris (Philosophie du droit, I, p. 115).
Ciò non di meno il cristianesimo ha operato nella storia destrutturando il sapere giuridico classico e favorendo l'avvento del volontarismo giuridico.
« La Justice de rêve que secrète notre idéalisme est historiquement un vestige et une mauvaise contrefaçon de l'ancien message évangélique du Royaume des Cieux » (Philosophie du droit,cit., p. 116).
Il fatto che la fede cristiana denunci ‒e a ragione‒ l'insufficienza della ragione e che mostri come la fraternità tra gli uomini attivi tra di loro vincoli ben più autentici che i meri vincoli di giustizia non implica ancora nulla di riduttivo nei confronti del diritto. Ma i teologi e i mistici cristiani hanno spesso dedotto da queste verità inoppugnabili una conseguenza che non appare necessaria a partire dalle premesse: quella per la quale la ragione giuridica naturale non può fare a meno di un radicamento teologico e che senza la fede il sapere giuridico è inconsistente. Appartiene ovviamente all'idea cristiana di Dio quella per la quale egli sia un, anzi, il legislatore dell'universo. Ma come legislatore Dio può operare secondo modalità molto diverse. Se per S. Tommaso l'immagine di Dio legislatore non toglie nulla all'autonoma ricerca da parte dell'uomo dello jus, per S. Agostino questa immagine necessariamente si fonde e si confonde con l'immagine paterna di Dio: un'immagine che fa di Dio una presenza forte, costante, quotidiana nell'esperienza umana, una presenza che non è possibile allontanare, rimuovere, emarginare. Con molta acutezza Villey rileva la foga con cui Sant'Agostino vuole dimostrare l'ingiustizia del diritto romano, in quanto diritto che esclude tra i doveri fondamentali dell'uomo quello della pietà nei confronti di Dio (ivi, p. 114). Da rigoroso tomista, Villey è tutto dalla parte del diritto romano e non esita a qualificare il ragionamento agostiniano come sofistico. Ma egli ben sa che si tratta pur sempre di un ragionamento che ha goduto di una immensa forza paradigmatica: non a caso su di esso si è andato costruendo quell'orientamento che Villey denomina agostinismo giuridico, un orientamento apparentemente sconfitto dall' aristotelismo tomistico, ma in seguito ripreso dalla scuola francescana, da Scoto, da Ockham, da Lutero. Ed è sui principi paradigmatici dell'agostinismo giuridico, sul suo profondo antigiusnaturalismo, sulla sua incapacità di pensare ad una natura come criterio di orientamento per una ragione giuridica naturale laica capace di accomunare credenti e non credenti, che si fonda il pensiero giuridico moderno ‒come Villey torna continuamente a dimostrare con rigoroso piglio storiografico‒.
Lo spirito tomistico è uno spirito classico; lo spirito agostiniano è uno spirito romantico. Lo spirito tomistico è uno spirito che vuole riconoscersi come sano, pur nella consapevolezza della sua fragilità; quello agostiniano è uno spirito che, proprio perché consapevole della sua fragilità, vuole riconoscersi come malato. Basta leggere le Confessioni (e forse non solo quelle di Agostino, ma anche quelle di Rousseau, che non a caso è stato il primo ad avere il coraggio di riprendere per la propria autobiografia ‒dopo secoli e secoli‒ un titolo così celebre e così compromettente) per capire in che senso lo spirito umano ‒che si manifesta attraverso le pagine di Agostino‒ sia indotto a riconoscersi malato: è la malattia indotta dal peccato quella che turba l'autore delle Confessioni e che lo spinge, pagina dopo pagina, ad aprire il proprio spirito a Dio, per chiedergli perdono, aiuto, salvezza. Nei lunghi anni di dibattito con Pelagio e con i pelagiani, Agostino acquisisce una profonda consapevolezza: per quanto doverosa sia la ricerca della giustizia (o, se parlare come Villey, dello jus), per quanto quindi rispettabile sia la professione del giurista, che a questa ricerca dedica tutta la sua vita, sarà sempre impossibile, senza la grazia di Dio, poterla portare a compimento, perché la ragione umana ‒anche quando fosse in grado con le sue forze di individuare il giusto‒ non troverebbe mai in se stessa la forza per attuarlo. In questo senso, l'agostinismo in generale, e quello giuridico in particolare, è irriducibile allo spirito della classicità.
Villey, in alcuni, rari, casi, cerca di avvicinarsi per quanto gli è possibile alla comprensione dello spirito agostiniano, ma lo fa pur sempre da profondo e convinto tomista quale egli è.
« La pratique de l'�criture sainte peut réconforter le juriste, stimuler, protéger en lui l'exercice de la droite raison. Le christianisme sert de ferment, confirme et secourt la nature, mais n'enlève rien à la nature » (Laïcité du droit selon Saint Thomas, in Leçons d'histoire de la philosophie du droit, Paris, Dalloz, 1962, pp. 214-215).
L'affermazione è sicuramente corretta, ma non centra il cuore del problema. Se è vero che il cristianesimo non toglie nulla alla natura, resta per l'agostinismo altrettanto vero che la verità naturale che la ragione giuridica può con le sue sole forze riuscire a cogliere resta fredda e inoperante, se non è attivata nel cuore dell'uomo da una forza che la ragione (a causa del peccato) non possiede e che comunque non è in grado con le sue sole forze di attivare. L'antinomia è irresolubile e ricalca con assoluta precisione quella tra spirito classico e spirito romantico, da cui avevamo preso le mosse. I romantici non negano la perfezione formale delle opere classiche: rilevano però come esse siano prive di anima. La perfezione della ragione giuridica classica è indubbiamente ammirevole; ma è pur sempre una perfezione fredda ed astratta, appunto perché priva di anima. Ma come potrebbe animarsi lo spirito classico, che non è nemmeno in grado di sentire l'esigenza di un supplemento d'anima? E' in questo senso che Agostino poteva riassumere nella celebre affermazione virtutes paganorum splendida vitia sunt tutta la sua ammirazione, ma anche tutto il suo distacco da un mondo di cui riconosceva la grandezza, ma che non poteva considerare suo. In Villey è possibile percepire la più precisa antitesi allo spirito agostiniano: egli sa riconoscere con grande onestà intellettuale la grandezza dei padri del volontarismo giuridico (basta rileggere le pagine che dedica ad Ockham o a Lutero), ma non riesce a entrare in comunicazione simpatetica con loro. Tra spirito classico e spirito romantico (o, se si preferisce, tra giusnaturalismo classico e volontarismo giuridico moderno) non c'è ponte né possibilità di mediazione.
Tra le provocazioni lasciateci in eredità da Villey una è particolarmente aspra: il n'y a pas de doctrine sociale propre au christianisme (Leçons d'histoire…,p. 214). Per confutare questa affermazione, alcuni si limiterebbero a citare il grande Compendio della dottrina sociale della Chiesa pubblicato dal Pontificio Consiglio Iustitia et Pax alla fine del 2004. Ma si tratterebbe di una risposta analoga a quella di coloro che, secondo Diogene Laerzio, senza proferire parola si mettevano semplicemente a camminare, per confutare i paradossi con cui Zenone negava il movimento. Nella critica di Villey alla dottrina sociale emerge un'istanza dal timbro schiettamente tomistico, che non va sottovalutata: tutti gli uomini, e non solo i cristiani, sono tenuti a portare, secondo il lume della ragione naturale, giustizia in questo mondo. Ed effettivamente nel Compendio la ragione naturale è costantemente e intensamente utilizzata: «i principi della dottrina sociale della Chiesa ‒si dice nell'introduzione al volume‒ che poggiano sulla legge naturale, si vedono poi confermati ed avvalorati, nella fede della Chiesa, dal Vangelo di Cristo». Sono parole prudenti, intenzionalmente lontane da ogni spirito di provocazione verso chi non crede al Vangelo, ma ben può credere a valori morali universali e cogenti; parole che forse Villey avrebbe condiviso, perché avrebbe ravvisato in esse una critica di quel volontarismo moderno, contro il quale egli ha utilizzato tutte le sue energie. Ma sono anche parole che vengono pronunciate in un contesto culturale che non è più quello in cui Villey si è formato ed ha lavorato. Emergono, nella situazione postmoderna, contrassegnata dall'intersecarsi di spinte globalizzanti e di antitetiche dinamiche conflittuali di timbro etnico-culturale, istanze che se da una parte non fanno ipotizzare alcun ritorno a paradigmi giusnaturalisti di timbro classico, dall'altra aprono imprevedibili scenari per una rinnovata presenza culturale del religioso nelle società secolari. Sappiamo bene come la modernità abbia sperperato vergognosamente il proprio capitale di credibilità accumulato attraverso la tematizzazione dei diritti umani (e non ci sarebbe da meravigliarsene: Villey, in quel libro purtroppo poco citato che è Le droit et les droits de l'homme, PUF 1983, ci aveva puntualmente messo in guardia contro la fragilità del fondamento volontaristico dei diritti). Emarginata nella e dalla modernità, rinchiusa in un ambito essenzialmente privato, come incompatibile con le esigenze di una società pluralista e secolare, la religione torna ad essere compresa come uno dei fondamenti pubblici di una società secolare, che si scopre romanticamente malata, che comprende di non essere in grado di elaborare autonomamente i fondamenti valoriali del vivere civile. L'agostinismo giuridico, metabolizzato e secolarizzato dal pensiero giuridico moderno, sembra poter riacquistare al giorno d'oggi, se sottoposto ad una ermeneutica adeguata, una incredibile pregnanza. Spetta a noi tornare a valutarlo, attraverso le pagine dell'unico studioso che abbia saputo coglierne lo spirito più intimo, anche cioè attraverso le pagine in cui Villey lo stigmatizza.
Recibido el 20 de mayo de 2014. Aceptado el 30 de septiembre de 2014.
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