Revista crítica de Derecho Canónico Pluriconfesional / Rivista critica di diritto canonico molticonfessionale


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ISSN 2387-1873 versión impresa
Depósito Legal: MA 2137-2014


L’abrogazione dell’insegnamento religioso nelle scuole e il dibattito tra socialisti e cattolici nell’età giolittiana


Alessandro Bucci


Para citar este artículo puede utilizarse el siguiente formato:

Alessandro Bucci (2016): «L’abrogazione dell’insegnamento religioso nelle scuole e il dibattito tra socialisti e cattolici nell’età giolittiana», en Kritische Zeitschrift für überkonfessionelles Kirchenrecht, n. 3 (2016).

Abstract: This research is about the secularization of schools by anticlericalism. The law Coppino and the abolition of the religion hour in school. The debate between Catholics and leftism about the abolition of religion.

Key words: Education, Anticlericalism, Encyclical Pascendi Dominici gregis, Teaching christian doctrine.

Resumen: Nuestro artículo versa sobre la temática de la secularización de las escuelas en el Reino de Italia como consecuencia del anticlericalismo reinante. Se aborda igualmente el contenido de la ley Coppino y la abolición de las horas dedicadas la enseñanza de la religión en las escuelas. Se ofrece un breve resumen del debate y la polémica entre católicos y políticos de izquierda sobre la abolición docente de la religión

Palabras clave: Enseñanza, Anticlericalismo, Encíclica Pascendi Dominici gregis, La doctrina cristiana y su enseñanza.

1. La laicizzazione della scuola e la legge Coppino

La legge Casati e il regolamento Mamiani1 del 15 settembre 1860, rappresentarono un tentativo di compromesso volto a contemperare le opposte esigenze dello Stato e della Chiesa. Non tardò a manifestarsi l’opposizione di parte laica e gradualmente.

In ordine di tempo, occorre ricordare la circolare Correnti del 29 settembre 1870 che ha isolato l’insegnamento della religione da quello delle altre materie destinando ad esse giorni ed ore determinate e nella scuola elementare rese facoltativa l’istruzione religiosa subordinandola all’espressa richiesta dei genitori. Del resto occorre considerare il fatto che le scuole private, della maggior parte cattoliche, erano state messe in difficoltà sia sotto il profilo giuridico che economico, al punto che numerosissime furono quelle che si videro costrette a chiudere, da tutta la legislazione ecclesiastica eversiva del nuovo Stato italiano, in particolare la legge 7 luglio 1866 sulla soppressione delle Congregazioni religiose2. Poiché evidentemente lo scioglimento degli enti religiosi dediti all’istruzione e la dispersione dei religiosi che ne facevano parte – visto che la legislazione lasciò sostanzialmente in piedi solo quelli con finalità di culto –, e l’incameramento da parte dello Stato dell’asse ecclesiastico, ovvero dei beni di tali enti3, da cui era principalmente alimentata la scuola confessionale, facevano venire meno il personale docente, le strutture scolastiche e le fonti economiche4.

Uguale processo di restrizione si ebbe sull’altro versante, quello dell’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche. Difatti con la già citata circolare del 29 settembre 1870 il ministro Correnti, interpretando restrittivamente le disposizioni dettate in materia dalla legge Casati, rimetteva l’insegnamento religioso all’espressa richiesta in tal senso dei genitori degli alunni. Il Ministro Cantoni, poi, con circolare del 12 luglio 1871, confermando queste disposizioni, isolava l’insegnamento della religione dalle altre materie.

Qualcosa iniziò a cambiare anche nelle facoltà teologiche, quando gli si iscritti iniziarono a essere pochissimi come esattamente faceva notare lo Scaduto5 dato che il numero degli iscritti si ridusse a 24 finché nell’anno accademico 1871-1872 in tutta Italia erano stati soltanto quattro; e fu così che con la legge del 26 gennaio 1873 n° 1271, le facoltà di teologia furono abolite6 ponendo così fine ad un lungo dibattito parlamentare7.

Così questo fu il destino dell’insegnamento della teologia verso le università e, subito dopo l’entrata in vigore della legge Casati, non poteva essere diverso quello dell’insegnamento della religione negli altri ordini di scuola, soprattutto a seguito della salita al potere della sinistra parlamentare (18 marzo 1876, con De Pretis)8, anche se l’eco che suscitò l’abolizione dell’insegnamento religioso alle scuole secondarie fu minore.

Accanto all’anticlericalismo che pian piano inizia a pervadere la società, c’è da annoverare anche l’atteggiamento del clero cattolico ancora una volta non all’altezza dei tempi che cambiano e soprattutto incapace di leggere i segni dei tempi. In effetti se da una parte, «l’orientamento ministeriale è ispirato al criterio di mantenere la religione a fondamento dell’educazione popolare e di ottenere, per quanto possibile, la collaborazione degli ecclesiastici, le risposte degli ispettori rivelano un dominante atteggiamento «laico», talvolta scopertamente anticlericale. Nella grande maggioranza sono infatti fautori della piena autonomia della scuola dal clero e, anche se non lo dicono apertamente, dell’abolizione dell’insegnamento religioso»9. A corollario, le maestre e le suore pensavano solamente a insegnare la recita dei rosari e delle orazioni10.

A ciò occorre aggiungere le rimostranze degli ispettorati provinciali – istituiti il 1 gennaio del 1861 ad opera di Farini11 – i quali si pongono il problema della disistima generale delle scuole nei confronti dei parroci che da un lato costringono le scolaresche ad andare a messa, dall’altro avversano “tutto quello che è secolare, mentre se coadiuvassero l’istruzione e la proteggessero, invece di vilipenderla”, si avrebbero “masse molto più amanti del loro dovere”12. Di diversa proiezione erano le aspettative nel Piemonte dove «a causa della diversa disposizione d’animo degli informatori, quello ligure scrive che i parroci sono contenti di come è insegnato il catechismo perché ne risulta alleviato il loro compito, ma che l’uso di accompagnare i fanciulli a messa, pur gradito alle popolazioni, sta declinando; il piemontese giudica indispensabile ed in sostanza soddisfacente l’insegnamento religioso scolastico che ritiene da favorirsi con ogni cura perché se mai venisse meno giovanetti e giovanette crescerebbero senz’alcuna idea di morale né di religione»13.

Secondo una parte della storiografia scolastica educativa, il periodo in esame è «un concorso di vari fattori tra cui il consolidamento della scuola di stato, la diffusione della cultura positivistica e delle ideologie democratiche e socialiste», dove «la larga penetrazione massonica negli ambienti ministeriali, smorza e fa giudicare inutile la cura di mantenere buoni rapporti con le autorità ecclesiastiche; anzi spesso si deplora che in certe località (in particolare nel sud e nel Veneto) il clero abbia più potere di quanto non gliene spetti, che molti comuni per malintesa economia affidino le scuole a preti troppo occupati nel loro ministero o a monache ignoranti, gli uni e le altre inadatti a dare una formazione civile perché quasi sempre ostili al nuovo ordine di cose»14.

La progressiva monopolizzazione e laicizzazione della scuola fu ancora più accentuata, dopo il 1876, con l’avvento al potere della sinistra radicaleggiante e anticlericale15. Ciò portò ad una ulteriore laicizzazione della scuola pubblica di pari passo con l’accentuarsi della centralizzazione statuale anche in materia scolastica.

In pratica, non avendo più ragion d’essere l’insegnamento della religione nelle scuole normali, a causa della soppressione operata presso la scuola elementare, con Regio Decreto 24 aprile 1879 quest’insegnamento fu eliminato anche dalle normali.

Così si realizzava, anche nelle scuole secondarie, l’aspirazione di quanti ritenevano necessario sostituire l’insegnamento religioso con quello morale e soprattutto civile; aspirazione che nelle elementari, così come disposto dalla legge del 15 luglio 1877 n° 3968 detta legge Coppino16, sembrava essersi già tradotta in realtà poiché, nell’indicare le materie oggetto di studio delle scuole primarie tale legge poneva le nozioni dei doveri dell’uomo e del cittadino al primo posto nell’elenco e non faceva alcuna menzione dell’insegnamento religioso.

In realtà non ci fu alcuna norma precisa diretta a sopprimere esplicitamente tale insegnamento, così si pensò ad un abrogazione tacita dell’art. 315 della legge Casati che ne fissava l’obbligatorietà; quest’omissione costituì un difficile problema interpretativo sul quale si pronunciò il Consiglio di Stato. In pratica ci si chiedeva se quella norma della legge Coppino, che aveva un obbiettivo limitato a regolare l’obbligo dell’istruzione primaria nei confronti dei genitori, valesse ad abrogare tacitamente il disposto di una legge generale come la legge Casati, o servisse solo a integrare il disposto di questa legge.

Dalla soluzione di questo problema dipenderà l’obbligatorietà o meno per i Comuni di far insegnare il catechismo nelle proprie scuole17. Fu la decisione del Comune di Genova, che aveva soppresso l’insegnamento catechistico, a determinare la protesta dei genitori ed il conseguente ricorso al Ministero della Pubblica Istruzione. Su tale ricorso, il Consiglio di Stato dette il proprio parere18 sostenendo la sussistenza dell’art. 315 della legge Casati, e di conseguenza affermò che l’istanza dei padri di famiglia che desideravano l’insegnamento della religione bastava a costituire un obbligo espresso ai Comuni a farlo impartire.

Secondo una parte della dottrina, «in questo modo, il conflitto con la Chiesa non giunse mai al punto di crisi che si sarebbe determinato con l’attuazione integrale, più volte richiesta e auspicata, del modello separatista. L’istruzione elementare, in effetti, divenuta obbligatoria con l. 3725/1859, costituiva nel periodo liberale l’unico strumento formativo di massa per le nuove generazioni, e la Chiesa cattolica poteva ritenere soddisfatta la propria esigenza fondamentale di mantenere un rapporto organico con la struttura più importante dell’istruzione pubblica. Peraltro, alcune correnti del pensiero liberarle non intendevano il mantenimento dell’insegnamento religioso nella scuola primaria come mera concessione alla Chiesa, ma erano propense a valutare l’utilità che l’educazione religiosa, nella formazione dell’infanzia, rivestiva ai fini morali e di educazione civica. In ogni caso, l’ordinamento italiano conobbe nel periodo liberale,…, la prima sperimentazione della facoltatività dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche...»19.

E fu così che il Regio Decreto del 16 febbraio 1888 n° 5292 e il seguente R.D. 9 ottobre 1895, n° 623 detto Regolamento Baccelli, posero termine a tale questione riconoscendo l’obbligo per i Comuni di provvedere all’istruzione religiosa degli alunni i cui genitori lo avessero richiesto, cosicché il Consiglio di Stato, pur risolvendo il problema in vigenza dell’art. 315 della legge Casati in senso difforme dal ricordato precedente20, ritenne che in base al regolamento Baccelli si dovesse considerare sussistente l’obbligo dei Comuni. Difficilmente precisabili erano il contenuto e le modalità d’adempimento di tale obbligo perché il Regolamento Baccelli aveva a tale proposito lasciato ampio margine ai poteri discrezionali dei Comuni i quali dovevano provvedere all’istruzione religiosa di quegli alunni i cui genitori lo chiedevano, nei giorni e nelle ore stabiliti dal Consiglio Scolastico provinciale.

Secondo Salvemini, «nel 1900 l’insegnamento catechistico era impartito in 5976 Comuni su 8258; la percentuale degli alunni iscritti per questo insegnamento andava da un massimo del 94,6% in Piemonte ad un minimo del 18,2% nell’Umbria (antico dominio della Chiesa!). Nell’Italia settentrionale, le amministrazioni comunali conquistate dagli anticlericali, lo abolivano; quelle che erano conquistate dai cattolici o dai nazionali conservatori, alleati dei cattolici, lo ristabilivano. Nell’Italia meridionale nessuno se ne interessava»21.

Non c’è dubbio che, come già ricordato, la tendenza ad una progressiva estromissione dell’insegnamento religioso dalla scuola deve ricollegarsi, oltre che agli atteggiamenti laicisti ed anticlericali dei Governi nell’ultimo trentennio del XIX secolo, anche agli influssi delle dottrine positivistiche, sia sul piano della filosofia che su quello della scienza.

Per questo motivo nei vari programmi scolastici dal 1867 in poi e in particolare in quelli del Gabelli (1888), dell’Ardigò (1894), dell’Orestano (1905), viene dato uno spazio sempre più ampio allo studio delle scienze ed alla sperimentazione, di contro alla estromissione – appunto – della religione22.

2. Il mutamento del quadro politico e la ripresa dei toni anticlericali

Dopo l’assassinio di Umberto I avvenuto il 29 luglio 1900, salì al trono Vittorio Emanuele III il quale affidò il Governo a Zanardelli (1901), e il suo più stretto collaboratore fu Giovanni Giolitti, Ministro dell’Interno, che – come lo Jemolo ricordò – «apparteneva a quella generazione che aveva visto, nella propria adolescenza, compiersi quasi miracolosamente in due anni l’unità d’Italia»23, ma anche «antitesi di Crispi e di quel che fu poi Mussolini»24. Per Zanardelli, l’unica soluzione per risolvere i conflitti sociali era quella di permettere una volta per tutte, anche ai ceti subalterni di partecipare alla vita politica della nazione, iniziativa che fu proseguita da Giolitti a lui succeduto nel 1903. Ebbe inizio così l’età giolittiana e la svolta si avvertì subito, con l’instaurarsi di un nuovo clima nella vita politica e nei rapporti patronato-governo-classe operaia25.

Fin da subito, come ha messo in evidenza Scoppola, egli avvertiva l’oggettiva necessità di un riavvicinamento, che venne concretizzato con una politica verso il Partito Socialista (nato con Filippo Turati nel 1892 a Genova) con l’intento di frenarlo26. Dai cattolici invece, Giolitti ottenne l’appoggio in funzione antisocialista27 e cercò contemporaneamente di impedire che essi si organizzassero in partito autonomo28.

Giolitti ebbe con i cattolici un atteggiamento di compromesso essendo ben consapevole della forza politica che la Chiesa poteva rappresentare e si adoperò per appianare tutti i contrasti in posizione molto lontana dalla separazione cavouriana di “libera Chiesa in libero Stato” secondo la più antica tradizione liberale, cara alla Destra storica del primo decennio post-unitaria. Per lui Stato e Chiesa erano «due rette parallele che non si dovevano mai incontrare»29 dando così l’idea di una parità, ma con il fermo proposito di evitare conflitti. In realtà – ricorda Scoppola – «la storia dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia, non registra nell’età giolittiana nessuno di quei tentativi di conciliazione dei quali tutta la storia precedente era stata punteggiata; ma proprio nel periodo in cui di conciliazione non si parla, i cattolici italiani, come già si è accennato, rientrano nella vita pubblica e della conciliazione, di fatto, si pongono le solide premesse»30.

Una mano a Giolitti nell’impedire la costituzione di un partito cattolico autonomo, la diede il nuovo papa Pio X (eletto il 4 agosto 1903), con l’enciclica Pascendi dominici gregis31, in cui egli, preoccupato dei progressi del socialismo, dichiarò eretico ogni movimento politico d’ispirazione cristiana. Tuttavia già qualche anno prima i cattolici parteciparono alle elezioni del 1904 ma senza dichiarazioni ufficiali. I primi tre deputati cattolici (Cornaggia, Cameroni e Piccinelli) si definivano “cattolici deputati”: questo gioco di parole non era senza senso. Secondo De Rosa, «fu quello il momento in cui si pose nella storia del nostro paese un’alternativa fondamentale per quanto riguarda la presenza dei cattolici nella vita pubblica: dovevano essi cioè costituire un proprio partito fondato sulla unità politica dei cattolici? O potevano invece dare la loro libera adesione agli schieramenti politici esistenti, secondo gli orientamenti di ciascuno? La discussione che si sviluppò, nel mondo cattolico, dopo le elezioni del 1904, nasceva proprio da questa sostanziale alternativa»32.

Comunque fra gli stessi cattolici non vi era coesione: vi erano quelli legati alle organizzazioni economiche dei contadini ed ostili alle alleanze con i liberali, i democratici cristiani di Murri e gli eredi di don Albertario; di diverso indirizzo erano i cattolici guidati dal Cornaggia, che fondava tutto su alleanze clerico-moderate; c’erano infine le tendenze intermedie, capeggiate da Filippo Neda, legate alla tradizione della democrazia cristiana e, nello stesso tempo, inserite nel sistema liberale33. Le posizioni di Romolo Murri prima e di don Luigi Sturzo poi erano però quelle che più rispecchiavano le grandi masse, che nel movimento cattolico si riconoscevano34.

Nel periodo che va dal 1907 al 1910 si diffusero ancor più negli ambienti governativi le tendenze conservatrici e filocattoliche35: in questo periodo, i conservatori e Giolitti tesero ad identificare il sovversismo con l’anticlericalismo e tale tendenza si affermò definitivamente nel periodo successivo, con l’adesione dei cattolici alla guerra libica e l’ostentazione del loro patriottismo36.

Quando all’interno del Partito socialista prevalse l’orientamento rivoluzionario, Giolitti si rese conto che l’unica via da prendere era quella di un’intesa con le forze cattoliche37. D’altra parte, l’ideologia atea e anticlericale del Partito socialista, il linguaggio eversivo e la violenza degli scioperi avevano indotto lo stesso pontefice Pio X ad attenuare l’intransigenza vaticana nei riguardi del regno d’Italia e ad ammorbidire il non expedit, ammettendo la possibilità di una qualche partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche38. Per questo, in occasione delle elezioni indette subito dopo lo sciopero generale, Pio X concesse ad alcuni candidati con una scelta puramente personale e non vincolante per la Chiesa di farsi eleggere nelle liste liberali.

L’innovazione politica più importante fu l’istituzione nel 1912 del suffragio universale maschile che, estendendo tra l’altro il diritto di voto anche agli analfabeti che avessero compiuto i trent’anni, permise per la prima volta l’ingresso delle masse contadine nel corpo elettorale, che risultò quasi triplicato fino a coinvolgere oltre il 24% della popolazione italiana.

Nel 1913, contemporaneamente all’estensione de diritto di voto, stipulò con il conte Vincenzo Ottorino Gentiloni – presidente dell’Unione cattolica italiana – un accordo segreto, il patto Gentiloni, in base al quale in sette punti39, i cattolici si impegnavano a sostenere l’elezioni dei deputati liberali, ottenendo in cambio l’abbandono della politica anticlericale40. Tale avvenimento segnò di fatto il rientro dei cattolici nella vita politica italiana dopo la frattura del 1870.

Di fronte al precipitare degli eventi Giolitti decise di cedere il governo al conservatore Salandra (1914). Pochi giorni dopo sarebbe scoppiata la Prima Guerra Mondiale e il corso degli eventi sarebbe completamente mutato.

3. Le posizioni all’interno del cattolicesimo

Come abbiamo visto nel capitolo precedente, all’interno del neonato movimento cattolico esistevano diverse posizioni. Quella degli “intransigenti”, arroccata in un netto rifiuto dello stato liberale e d’ogni elemento della modernità, fu maggioritaria negli ultimi due decenni del secolo. Essa diede vita a una grande e capillare organizzazione, l’Opera dei congressi, allo scopo di coordinare le attività dei cattolici nelle scuole, nelle opere pie, nelle società di mutuo soccorso e che si poneva nella naturale contrapposizione tra i «cattolici transigenti che, in continuità con il cattolicesimo liberale, auspicavano un accordo tra società religiosa e società politica, ma avrebbe altresì camminato su una strada diversa anche da quella dei cattolici che, dando per scontata una catastrofe dello Stato liberale, vivevano in una specie di fatalistica attesa di quel crollo»41.

Una seconda posizione era quella moderata, che faceva capo a Filippo Meda, favorevole ad un progressivo inserimento dei cattolici nello stato liberale42. Una terza posizione, infine, era quella della Democrazia Cristiana, movimento fondato dal sacerdote Romolo Murri – tra i promotori della fondazione della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) che cercò di rinnovare la mentalità conservatrice dei dirigenti delle associazioni cattoliche e chiedeva più chiaro impegno in difesa delle libertà costituzionali, a fianco dei repubblicani e socialisti, contro il governo liberale e conservatore43 –, e gli eredi di don Albertario, fondatore del quotidiano Osservatore cattolico. Murri riteneva che per affermare il ruolo del cristianesimo e della Chiesa della nuova società industriale, fosse necessario creare un partito di massa cattolico. Sotto l’influenza delle idee moderniste, Murri diede a quest’iniziativa un significato sempre più accentuatamente sociale e anticonservatore, schierandosi a favore delle riforme sociali e in appoggio alle rivendicazioni dei lavoratori. Il movimento di Murri giunse a sostenere i candidati radicali e socialisti, e lo stesso Murri risultò eletto nelle file della sinistra, cosa che ne provocò la scomunica da parte del nuovo pontefice Pio X, succeduto a Leone XIII.

Le posizioni di Romolo Murri prima e di don Luigi Sturzo poi erano però quelle che più rispecchiavano le grandi masse, che nel movimento cattolico si riconoscevano44.

La distinzione fra intransigenti e transigenti, come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, venne superata dal prevalere, all’interno del mondo cattolico, della tendenza clerico-moderata, che riteneva necessario per i cattolici impegnarsi nella vita politica al fianco dei liberali conservatori in opposizione ai socialisti. Sciolta l’Opera dei congressi da parte di Pio X, emarginate le posizioni democratico-cristiane di Murri, il movimento cattolico accettò di fatto la realtà dello Stato liberale, operando piuttosto per acquisire peso e influenza nello Stato e nella società45. Nel 1905 Pio X chiarì che i cattolici potevano intervenire alle elezioni politiche in quei collegi dove potesse risultare eletto un loro candidato o, in appoggio ai liberali moderati, dove vi fosse un rischio di vittoria dell’estrema sinistra. Sedici candidati cattolici risultarono così eletti nel 1909.

4. Le posizioni all’interno della sinistra

Anche il progetto di Giolitti di rafforzare il Governo grazie ad un accordo con i socialisti fallì nella sostanza perché «non riuscì a fare dei socialisti una forma di Governo»46. I socialisti accolsero con favore il governo Zanardelli – Giolitti, che sembrava l’interlocutore adatto per realizzare il programma minimo stabilito dal partito nel congresso di Roma: suffragio universale, libertà sindacale, riduzione dell’orario di lavoro, tutela del lavoro di donne e fanciulli, istruzione laica e obbligatoria, assistenza e previdenza erano i punti principali di tale programma, sostenuto dalla maggioranza riformista di Filippo Turati e Claudio Treves.

Jemolo presenta un quadro chiaro sulle prospettive del partito di Turati: «non avrebbe mai detto che una qualsiasi questione salariale aveva più importanza per lui di una grande questione astratta. Guarda ad una revisione morale e materiale delle classi umili, ma crede che vi si debba arrivare con la trasformazione di un mondo. Potrà differire, secondo le scuole, secondo le concezioni proprie alle varie fazioni del partito, nel modo di operare della sua palingenesi, ma è veramente all’abbattimento di tutto il passato che egli mira: ha persino sue fogge di vestire, un appellativo di “compagno”, di un suo fiore, il garofano rosso; quando è un fanatico delle nuove idee, non pratica neppure il matrimonio civile ma una libera unione. Al suo sistema non è nemmeno necessario un radicale rinnovamento dell’economia, e una visione umanitaria, che l’internazionalismo, che l’antimilitarismo, che l’avversione a quanto è originato dallo spirito militare o intriso di questo – si tratti delle decorazioni, sia pure al valore, o si tratti invece del duello, – e l’anticlericalismo»47.

Sulle posizioni all’interno della sinistra, ci rifacciamo ancora una volta alle parole di Jemolo che spiega in modo esemplare le diverse posizioni all’interno della sinistra: «se si guarda un po’ più da presso, si vede però che in questo socialismo v’era una frattura più intima di quella formale, consacrata dai congressi, da riformisti rivoluzionari. La frattura tra il socialismo derivato dal ceppo umanitario, ricco di sentimento di poesia, quelli poverissimi di dottrina, di piani costruttivi, di idee chiare, e un altro socialismo, di ben diverse origini e di ben diversi propositi»48.

Le posizioni della sinistra sarebbero in sostanza due: la prima era quella originaria, di Garibaldi e del poeta Felice Cavallotti, ma anche dell’ultimo De Amicis e di Ada Negri, Carducci e Stecchetti49, anche se di vere e proprie adesioni al partito si possono parlare in Giovanni Pascoli e Cesare Lombroso, Arturo Graf e Corrado Corradino50. Lapidario è Jemolo: «questo socialismo umanitario, nutrito di pietà per gli umili, ancora lungi dall’esaurirsi, seppure quasi vent’anni fossero trascorsi dalle prime precisazioni dottrinarie del socialismo nostro, oltre quindici dallo scritto di Antonio Labriola, in memoria del Manifesto dei comunisti, e così dalla prima diffusione in una cerchia sufficientemente vasta nella teoria marxista tra noi. Molti credevano di potersi dire socialisti in nome soltanto di quel umanitarismo, e solo spinti da esso davano i loro suffragi a candidati socialisti nelle competizioni elettorali. Ma lo stesso socialismo di Turati, di De Felice, di Barbato, sotto su quel ceppo, aveva avuto una evoluzione ed uno sviluppo che erano mancati in quanti, rimasti aderenti al solo lato umanitario, credevano di poter associare il socialismo ai valori del vecchio mondo, la patria anzitutto»51.

La seconda posizione era quella che si rifaceva interamente a Carl Marx e Sorel52 quest’ultimo immune da “scorie umanitarie”53. Sorel era contro la democrazia parlamentare, per l’azione diretta e violenta, la sola che consentisse la conquista di una nuova coscienza morale. Lo sciopero generale era il momento culminante e sublime di questa azione, e non aveva tanto un valore economico, quanto mitico, etico e pedagogico54. Una concezione della lotta di classe volontaristica e antintellettualistica, antitetica al riformismo.

Turati sosteneva che la classe operaia dovesse favorire la crescita di una moderna borghesia industriale quale premessa per una trasformazione della società in senso socialista, premendo nel frattempo sul governo per ottenere le riforme. All’interno del partito la componente rivoluzionaria, osteggiava l’idea di Turati proprio perché ostili a ogni accordo con i governi borghesi, che avrebbe tolto autonomia all’azione socialista e ne avrebbe causato il distacco dalle masse popolari. Turati rifiutò la proposta di entrare a far parte del governo avanzata da Giolitti, e si limitò ad un appoggio caso per caso che venne poi ritirato di fronte ai modesti risultati della riforme, ai frequenti casi di lavoratori caduti nel corso di scontri con le forze dell’ordine e alla crescita della componente sindacalista – rivoluzionaria all’interno del partito, guidata da Arturo Labriola.

5. Il dibattito sulla abrogazione dell’insegnamento religioso

Da quanto si è finora visto, la tendenza ad una progressiva estromissione dell’insegnamento religioso dalla scuola deve ricollegarsi, oltre che agli atteggiamenti laicisti ed anticlericali dei Governi nell’ultimo trentennio del XIX secolo, anche agli influssi delle dottrine positivistiche. Ciò portò, oltre alla già citata legge Coppino, anche alla legge del 23 giugno 1877, n° 3918, che aveva soppresso nei ginnasi, nei licei e nelle scuole tecniche l’ufficio di direttore spirituale; il Regio Decreto del 24 aprile 1879 che cancellò l’insegnamento della religione dai programmi delle scuole normali; il regolamento del 30 settembre 1880 che soppresse gli esami di religione nella scuola statale. Nelle scuole elementari, infine, dopo anni di situazioni in certi casi addirittura paradossali, dovute agli equivoci silenzi della legge Coppino – e, ricordiamo, molte volte furono gli stessi cattolici a chiedere la revoca di quell’insegnamento religioso, che era stato affidato a maestri impreparati o persino contrari – si giunse con il Regolamento Rava, del 6 febbraio 1908 alla facoltatività dell’insegnamento della religione55, sia per gli alunni che per le amministrazioni comunali. Secondo la disciplina fissata in questo regolamento, la richiesta dei padri di famiglia faceva sì che tale insegnamento fosse impartito nelle ore e nei giorni stabiliti dal Consiglio provinciale per opera di un insegnante ritenuto idoneo dal consiglio stesso.

Pur tuttavia, e questo doveva essere il punto chiave della riforma, in tutti quei Comuni in cui la maggioranza dei consiglieri si fosse dichiarata contraria all’insegnamento catechistico, il relativo onere sarebbe stato a carico dei genitori. Indubbiamente si trattava di un sistema complicato che, nell’opinione del Giolitti, allora Presidente del Consiglio, avrebbe garantito la libertà delle famiglie, delle amministrazioni comunali dei maestri.

In pratica questa soluzione non fece altro che rinfocolare le polemiche e offrire lo spunto a un vivace dibattito parlamentare che, protrattosi dal 18 al 27 febbraio del 1908, si imperniò nella mozione Bissolati, il cui testo richiedeva da parte del Governo l’impegno di «assicurare il carattere laico della scuola elementare, vietando che essa sia impartito sotto qualsiasi forma di insegnamento religioso»56. La mozione venne respinta con una netta maggioranza; essa corrispose al momento in cui le sollecitazioni di laicizzazione della scuola furono più avanzate, anche se di fatto ancora per qualche anno, l’insegnamento religioso fu sempre più raro confuso57.

Da ultimo, con la legge Daneo–Credaro del 4 giugno 1911, n° 487, furono stabilizzate quasi tutte le scuole elementari, e l’insegnamento della religione fu estromesso dal normale orario scolastico, e soppresso nelle classi quinta e sesta così come già deciso dalla legge dell’8 luglio 1904, n° 807, detta Legge Orlando58 che considerava il popolo come classe subalterna, a cui dare solo pochi rudimenti di cultura; e con un modello scolastico accentratore e gerarchico.

La legge Daneo–Credaro fu il punto di svolta della scuola in Italia perché faceva passare l’onerosità economica dell’istruzione scolastica dalle amministrazioni comunali allo Stato, e ponendo a carico di quest’ultimo il pagamento degli stipendi dei maestri elementari, così da poter disciplinare l’obbligo in modo più vigoroso anche in quelle realtà locali molto disagiate in cui i bilanci comunali non avevano consentito, in precedenza, una corretta organizzazione della scuola59. Si pone fine “a quella istruzione primaria ottocentesca e liberale affidata alle sole cure degli enti locali e all’iniziativa dei pochi eroi del pionierismo culturale e imprenditoriale della nascente civiltà industriale60. La storiografia scolastica, in proposito, parla di avocazione della scuola elementare allo Stato61.

A ben vedere, la legge fu una sconfitta per i Cattolici i quali, pur impediti dal non expedit ad impegnarsi nella vita politica dello Stato, erano comunque presenti in moltissimi Consigli comunali e avevano rivendicato il diritto naturale delle famiglie a scegliere l’indirizzo educativo dei loro figli.

Recibido el 21 de julio de 2016 y aceptado el 23 de diciembre de 2016
* Prof. dr. Alessandro Bucci, Pontificio Istituto Orientale di Roma e Università degli Studi di Cassino.




References

1 Il Regolamento può leggersi in Programmi per la scuola elementare, annessi al Regolamento 15 settembre 1860, in Codice dell’istruzione secondaria, classica e tecnica e della primaria e normale. Raccolta delle Leggi, Regolamenti, Istruzioni ed altri provvedimenti emanati in base alla legge 13 novembre 1859 con note spiegative e raffronti colle leggi preesistenti. Approvato dal Ministero della Pubblica Istruzione, Torino, 1861, pp. 401-405.

2 Le principali Leggi Eversive, riguardano: la soppressione delle Case dei Gesuiti e delle Dame del S. Cuore, incameramento dei loro beni e l’abolizione del “milione” che, per il Concordato del 1848 lo Stato piemontese si era impegnato a versare per il culto (L. 25 agosto 1848, n° 777); l’abolizione del foro privilegiato per i chierici e del diritto di asilo nelle chiese (L. 9 aprile 1850, n° 1013: detta legge Siccardi); divieto agli enti morali (ecclesiastici e laicali) di acquistare beni immobili, ed anche quelli mobili, se per donazione o per disposizione testamentaria, senza preventiva autorizzazione dello Stato (L. 5 giugno 1850, n° 1037: detta legge Siccardi); soppressione degli ordini religiosi contemplativi e incameramento dei loro beni. Viene creata la Cassa ecclesiastica che nel 1866 diviene il Fondo per il Culto (L. 7 luglio 1855, n° 878); soppressione di tutte le Corporazioni religiose e creazione del Fondo per il Culto (L. 7 luglio 1866); soppressione di molti enti secolari: capitoli delle chiese collegiate e ricetti zie, benefici, cappellanie. I loro beni vengono devoluti al Fondo per il Culto (15 agosto 1867, n° 3848); estensione alla Provincia di Roma delle leggi sulla soppressione delle Corporazioni e sulla conversione dei beni immobili degli enti morali ecclesiastici (L. 8 giugno 1873, n° 1402); la laicizzazione delle Opere Pie e degli istituti di beneficenza che vengono sottratte alla vigilanza dell’autorità ecclesiastica. Sono dette Legge Crispi, che tenta una parziale riparazione del danno causato dalle leggi precedenti (L. 17 luglio 1890, n° 69 e n° 72).

3 Tanto che per la prima volta si parlò di Asse Ecclesiastico, facendo derivare il significato dalla valuta romana, l’assis, e mettendone in evidenza l’elemento della rendita fondiaria ritenuta, e non a torto, di evidente importanza. Come nota lo Jemolo (s.v. Asse Ecclesiastico, in E.I., 4, 1929, p[p. 986-988] 986), «il termine si trova adoperato nella legge 28 giugno 1866, n. 2987, che all’art. 2 dà facoltà al governo di pubblicare ed eseguire come legge le disposizioni già votate dalla camera elettiva sulle corporazioni religiose e sull’asse ecclesiastico, e questo di Legge sulla soppressione delle corporazioni religiose e sull’asse ecclesiastico è il titolo dato al susseguente decreto legislativo 7 luglio 1866, n. 3036. Legge per la liquidazione dell’asse ecclesiastico s’intitola quella 15 agosto 1867, n. 3848, che costituisce col detto decreto legislativo il caposaldo della legislazione italiana in materia di soppressione di enti ecclesiastici e di norme sul patrimonio ecclesiastico. Giunta liquidatrice dell’asse ecclesiastico di Roma era il nome dell’organo governativo istituito con l’art. 9 della legge 19 giugno 1873, n. 1402. Il termine è del pari costantemente adoperato nei progetti che precedettero le due grandi leggi eversive (Pisanelli, 18 gennaio 1864; Vacca-Sella, 12 novembre 1864; Corsi, relazione sul progetto precedente, 7 febbraio 1865; Cortese-Sella, 13 dicembre 1865; Borgatti-Scialoia, 17 gennaio 1867)». Cfr. A. Bertozzi, Notizie storiche e statistiche sul riordinamento dell’asse ecclesiastico in Italia, in Annali di statistica, s. 2ª, IV, Roma 1879.

4 A. C. Jemolo, s.v. Asse Ecclesiastico, in E.I., 4, 1929, p[p. 986-988] 986.

5 Cfr. F. Scaduto, L’abolizione delle facoltà di teologia in Italia, Torino, 1886, p. 37; V. Del Giudice, Per lo studio del diritto canonico nelle università italiane, in Studi in onore di Francesco Scaduto, vol. I, Firenze, 1936, pp. 208-209.

6 Secondo il Del Giudice, con le cattedre di teologia furono attaccate anche quelle di diritto canonico (in Per lo studio del diritto canonico nelle università italiane, in Studi in onore di Francesco Scaduto, vol. I, Firenze, 1936, pp. 209 e 211). A proposito dell’insegnamento del diritto canonico, l’autore ricorda come «quale studioso serio, o almeno volenteroso poteva dirsi disposto a lasciare i seminari o le curie o i capitoli, oppure le silenziose biblioteche, per andare ad insegnare diritto canonico nelle università, dove l’avrebbero accolto e circondato di derisioni e i compatimenti dei colleghi e le beffe dei discepoli? E perché poi? Per vivere sotto la minaccia continua di una soppressione di cattedre e, nella più benevola delle ipotesi, di un ufficiale patente di inferiorità, come fu quella che si largì, con la legge, per gli altri ordinari» (ibidem, p. 221). E’ chiaro che per i professori di teologia la situazione di imbarazzo non doveva essere diversa, se non più incresciosa, di quella che veniva riservata ai docenti di diritto canonico.

7 Sul lungo dibattito parlamentare, cfr. F. Pazzaglia, Il dibattito sulla soppressione delle Facoltà teologiche nelle Università di Stato, in Il Parlamento italiano (1861-1985), Milano, 1989, vol. III, pp. 193-194, ma anche dello stesso Educazione e scuola nel programma dell’Opera dei Congressi (1874-1904), in F. Pazzaglia–R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, p. 82. Cfr., inoltre, G. Bottai–G. De Luca, Carteggio 1940-1957, a cura di R. De Felice–R. Moro, Storia e Letteratura, Roma, 1989, p. 40, dove a nota 17 si mettono in evidenza le opere di B. Ferrari, La soppressione delle facoltà di teologia nelle università di Stato in Italia, Brescia, 1968, e F. Lazzari, Le Facoltà teologiche universitarie tra il Sillabo e l’abolizione, in AA.VV., Un secolo da Porta Pia, Napoli, 1970, pp. 249-287. Per un inquadramento storico-giuridico, cfr. F. Scaduto, L’abolizione delle facoltà di teologia in Italia, Torino, 1886, p. 37.

8 Sulla sinistra parlamentare, cfr. L. Giusso, Le dittature democratiche in Italia, Milano, 1929, p. 18; M. Pagella, Stato giuridico dell’insegnante di religione, in AA.VV., La cattedra di religione, Brescia 1962, p. 101; F. Margiotta Broglio, Lo stato degli insegnanti di religione nell’ordinamento statuale, in Rivista giuridica della scuola, 1963, p. 773; V. Alemanni, L’insegnamento della religione, in AA.VV., Dalla riforma Gentile alla carta della scuola, Firenze, 1941, p. 221; R. Bonghi, Studi e discorsi intorno alla pubblica istruzione, a cura di Candeloro, Firenze, 1937, p. 87. Sintomatico è il fatto che l’eco di un atteggiamento decisamente anticlericale si risentirà ancora intorno al 1924 nei lavori relativi alla scuola sebbene non venissero a mancare paranoie a favore della riforma Gentile; cfr. A. Poggi, Stato, Chiesa, Scuola: studi e polemiche, Firenze, 1924, pp. VII e 103-105.

9 Cfr. così T. Tomasi, Da Matteucci a Corradini. Le inchieste sulla scuola popolare dell’età liberale, in L. Pazzaglia–R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, p. 18.

10 Ibidem, p. 19.

11 Cfr. Legge Decreto del Luogotenente Generale di S. M. nelle provincie napoletane in data 1 gennaio 1861, in Codice dell’istruzione secondaria classica e tecnica e della primaria e normale, Torino, 1861, pp. 184-186, citato in A. Barausse, Le istituzioni scolastiche dall’Unità al fascismo (1861-1933), in R. Lalli–N. Lombardi–G. Palmieri, Campobasso. Capoluogo del Molise, Campobasso, 2008, vol. II, p[p. 67-106] 67. L’Autore, inoltre, approfondisce il tema dei processi di scolarizzazione nell’allora Provincia di Campobasso che comprendeva tutto il territorio dell’odierna Regione Molise.

12 Cfr. così T. Tomasi, Da Matteucci a Corradini. Le inchieste sulla scuola popolare dell’età liberale, in L. Pazzaglia–R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, p. 19.

13 Ibidem.

14 Ibidem. Cfr., inoltre, Ministero della Pubblica Istruzione, Sulle condizioni della Pubblica Istruzione nel Regno d’Italia, Milano, 1865; G. Talamo, La scuola della legge Casati alla inchiesta del 1864, Milano, 1866, pp. 41 e ss.

15 Cfr. tra gli altri e con diverso orientamento, A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, 1963, pp. 165 e ss.; G. Spadolini, L’opposizione cattolica, Firenze, 1972; G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Bari, 1970, p. 123; G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Roma, 1972, pp. 157 e ss.; G. Spadolini, Le Due Rome, Firenze, 1973, pp. 317 e ss.

16 Sul dibattito in Parlamento e sulla stampa, cfr. G. Talamo, Istruzione obbligatoria ed estensione del suffragio, in L. Pazzaglia–R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, pp. 55-56. Sull’ottemperamento della legge Coppino nel Molise, cfr. A. Barausse, Le istituzioni scolastiche dall’Università al Fascismo (1861-1933), in R. Lalli–N. Lombardi–G. Palmieri, Campobasso. Capoluogo del Molise, Campobasso, 2008, vol. II, p[p. 67-106] 77.

17 Cfr. L. Pazzaglia, Educazione e scuola nel programma dell’Opera dei Congressi (1874-1904), in F. Pazzaglia–R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, p. 93.

18 Sezione I, 17 maggio 1878 e Sezione I, 13 maggio 1891, entrambi in La legge, 1891, I, p. 817.

19 C. Cardia, Stato e confessioni religiose. Il regime pattizio, Bologna, 1988, pp. 291-292.

20 Cfr. sentenza 8 maggio 1903, in Giur. It., 1903, III, p. 282.

21 Cfr. G. Salvemini, Stato e Chiesa in Italia, Milano, 1969, p. 152.

22 Sulle vicende dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, cfr. gli studi di F. V. Lombardi, L’insegnamento religioso nella legislazione e nei programmi dalla legge Casati ai programmi del Gabelli, in Pedagogia e Vita, serie XX, n° 6, agosto-settembre 1959, pp. 535-545; F. V. Lombardi, L’insegnamento religioso nella scuola elementare dai programmi del Gabelli alla riforma Gentile, in Pedagogia e Vita, serie XXIII, n° 1, ottobre-novembre 1961, pp. 650-662; F. Bettini, I programmi di studio per le scuole elementari dal 1860 al 1945, Brescia, 1961; S. De Simone, Disciplina giuridica dell’insegnamento della religione in Italia, Milano, 1973, pp. 11-46.

23 In Stato e Chiesa in Italia negli ultimi cento anni, Torino, 1948, p. 502.

24 Ibidem, p. 505.

25 Ibidem, p. 571.

26 Nel partito confluiscono i contadini delle zone già investite dal capitalismo, gli operai delle fabbriche, gli addetti ai servizi e persino fasce di classi urbane medio-piccole.

27 A. Aquarone, Lo Stato catechista, Firenze, 1961, p. 35.

28 P. Scoppola, Chiesa e Stato nella storia d’Italia, Bari, 1967, p. 347. Inoltre, L. Pazzaglia, La scuola tra Stato e società negli anni dell’età giolittiana, in Pazzaglia–R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, p. 208.

29 G. Giolitti, Discorsi parlamentari, II, Roma, 1953, p. 820

30 In Chiesa e Stato nella storia d’Italia, Bari, 1967, p. 347.

31 Del 17 settembre 1907. In Acta Sanctae Sedis, 40, 1907, pp. 593-650.

32 In Storia del movimento cattolico in Italia, dalla restaurazione all’età giolittiana, vol. I, Bari, 1970, p. 444.

33 A. Aquarone, L’Italia giolittiana (1896-1915): Le premesse politiche ed economiche, Vol. 1, Bologna, 1981, p. 250.

34 Cfr. ibidem, p. 251

35 P. Scoppola, Chiesa e Stato nella storia d’Italia, Bari, 1967, p. 404.

36 Ibidem.

37 Ibidem, p. 408.

38 A. C. Jemolo, Stato e Chiesa in Italia negli ultimi cento anni, Torino, 1948, pp. 518 e ss.

39 Sono riportati tutti in P. Scoppola, Chiesa e Stato nella storia d’Italia, Bari, 1967, pp. 409-410.

40 Sul patto Gentiloni, G. Spadolini, Giolitti e i cattolici (1901-1914), Firenze, 1960, pp. 283 e s.

41 Così L. Pazzaglia, Educazione e scuola nel programma dell’Opera dei Congressi (1874-1904), in F. Pazzaglia–R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, p. 84

42 A. Aquarone, L’Italia giolittiana (1896-1915): Le premesse politiche ed economiche, Vol. 1, Bologna, 1981, p. 250.

43 P. Scoppola, s.v. Romolo Murri, in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, VIII, Milano, 2006, pp. 7683-7685.

44 Cfr. ibidem, p. 251

45 A. C. Jemolo, Stato e Chiesa in Italia negli ultimi cento anni, Torino, 1948, pp. 518 e ss.; ma anche P. Scoppola, Chiesa e Stato nella storia d’Italia, Bari, 1967, p. 385

46 A. C. Jemolo, Stato e Chiesa in Italia negli ultimi cento anni, Torino, 1948, p. 543.

47 Ibidem, p. 542.

48 Ibidem.

49 Ibidem.

50 F. Momigliano, Arturo Graf e il socialismo, in Nuova Antologia, 165, 1913, p. 636 e p. 637.

51 A. C. Jemolo, Stato e Chiesa in Italia negli ultimi cento anni, Torino, 1948, p. 543.

52 Contro la tesi marxista del proletariato organizzato da un partito, questi auspica che l’azione diretta, senza mediazione alcuna, sia lo strumento dell’azione rivoluzionaria.

53 Ibidem.

54 Ibidem.

55 Sulla focalizzazione puntuale degli antecedenti che portarono al Regolamento Rava, cfr. L. Pazzaglia, La scuola tra Stato e società negli anni dell’età giolittiana, in L. Pazzaglia–R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, pp. 206 e ss. Sull’incidenza del regolamento nella Regione Molise, cfr. A. Barausse, Le istituzioni scolastiche dall’Università al Fascismo (1861-1933), in R. Lalli – N. Lombardi – G. Palmieri, Campobasso. Capoluogo del Molise, Campobasso, 2008, vol. II, p[p. 67-106] 91.

56 Per un esame del dibattito parlamentare, cfr. Atti parlamentari Camera, XXII Legislatura, tornate 18 e 27 febbraio 1908. Il dibattito è riportato, con un ampio commento, da A. Acquarone, Lo Stato catechista, Firenze, 1961. Cfr. inoltre G. Bonetta, L’avocazione della scuola elementare allo Stato, in L. Pazzaglia – R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, p. 240.

57 L. Pazzaglia, La scuola tra Stato e società negli anni dell’età giolittiana, in L. Pazzaglia – R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, p. 208.

58 La legge aveva prolungato l’obbligo scolastico fino al dodicesimo anno e aveva previsto anche l’istituzione di un corso popolare formato dalle classi quinta e sesta. Si annovera anche l’imposizione ai Comuni di istituire scuole almeno fino alla quarta classe. Sulla figura dell’Orlando, cfr. T. Marchi, Vittorio Emanuele Orlando, giurista e uomo di Stato, in Studi parmensi, 3, 1953, pp. 409-422.

59 L. Pazzaglia, La scuola tra Stato e società negli anni dell’età giolittiana, in L. Pazzaglia – R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, p. 208.

60 G. Bonetta, L’avocazione della scuola elementare allo Stato, in L. Pazzaglia – R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, p. 264.

61 Cfr., per tutti, G. Bonetta, L’avocazione della scuola elementare allo Stato, in L. Pazzagli – R. Sani, Scuola e società nell’Italia unita, Milano, 1997, pp. 237-266. Sul dibattito della storiografia, per un approfondimento, cfr. E. De Fort, L’avocazione della scuola elementare allo Stato, in Riforma della Scuola, XXVI, 1980, n° 10, pp. 27-34; C. Graziani, Luigi Cedraro e la politica scolastica in età giolittiana, in I problemi della pedagogia, VIII, 1961, f. 1, pp. 76-106 e f. 2, pp. 276-290; L. Ambrosoli, Luigi Credaro e la scuola italiana dell’età giolittiana, in Scuola e città, XXXI, 1980, 5, pp. 199-206; E. Bosna, La politica scolastica dell’età giolittiana e i suoi riflessi nelle religioni meridionali, in Quaderni dell’istituto di Pedagogia dell’Università di Bari, 1979, f. 1, pp. 25-60; G. Bonetta, La fine dell’autonomia scolastica dei comuni: il progetto politico e culturale dell’avocazione (1900-1909), in Storie e Storia, III, 1981, n° 5, pp. 93-158.







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