Revista europea de historia de las ideas políticas y de las instituciones públicas


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Depósito Legal: MA 2135-2014

Presidente del C.R.: Antonio Ortega Carrillo de Albornoz
Director: Manuel J. Peláez
Editor: Juan Carlos Martínez Coll


IL DIRITTO DEI SENZA DIRITTI: LA CRITICA FILOSOFICA DEI DIRITTI DELL’UOMO, DA MICHEL VILLEY A MARCEL GAUCHET

Lorenzo SCILLITANI*

Para citar este artículo puede utilizarse el siguiente formato:

Lorenzo Scillitani (2014): «Il diritto dei senza diritti: la critica filosofica del diritti dell’uomo, da Michel Villey a Marcel Gauchet», en Revista europea de historia de las ideas políticas y de las instituciones públicas, nº 7 (septiembre 2014).

Resumen: En el presente estudio hay una premisa o punto de partida, la de que los derechos humanos no gozan de buena salud. La propia historia de los derechos humanos está llena de contrastes y muestra la evidencia de conflictos y reivindicaciones de muy diverso género. Michel Villey ha sido consciente de la descomposición de los derechos humanos. A juicio de Lorenzo Scillitani, Villey ha puesto de relieve los componentes ideológicos y los autores de que se derivan los derechos humanos. En este sentido atribuir a San Juan Pablo II el haber pasado a la historia como el papa de los derechos humanos resulta un arma de doble filo, pues la construcción de la teoría se ha llevado a cabo desde una modernidad confusa en la que las personas serían sujetos portadores de derechos subjetivos y la subjetividad pone de relieve una teoría individualista del hombre dentro de la sociedad que rebaja y degrada de forma considerable lo que debe ser el núcleo principal de la teoría jurídico-céntrica de la realidad humana. Villey nos invita a retornar a Gayo y a Cicerón. Además la antropología moral clásica hay que verla como algo que no hace más que girar en torno a los deberes. Marcel Gauchet es también contemplado como teórico de los derechos humanos, para quien en el tercer milenio «la consagración de los derechos humanos es con seguridad el hecho político e ideológico más importante de los últimos veinte años. Es la expresión del triunfo de las democracias». La política debe regenerarse para que se reconozca el derecho de los sin derechos, lo que lleva a recurrir a la sugerente idea recordada en un libro del que es autor Stefano Rodotà y lleva por título el derecho a tener derechos.

Palabras clave: Michel Villey, Gayo, Cicerón, Marcel Gauchet, Stefano Rodotà.

Resum: En el present estudi hi ha una premissa o punt de partida, la que els drets humans no gaudeixen de bona salut. La pròpia història dels drets humans està plena de contrastos i mostra l'evidència de conflictes i reivindicacions de molt divers gènere. Michel Villey ha estat conscient de la descomposició dels drets humans. Segons el parer de Lorenzo Scillitani, Villey ha posat en relleu els components ideològics i els autors que es derivan els drets humans. En aquest sentit atribuir a Sant Joan Pau II l'haver passat a la història com el papa dels drets humans resulta un arma de doble tall, doncs la construcció de la teoria s'ha dut a terme des d'una modernitat confusa en la qual les persones serien subjectes portadors de drets subjectius i la subjectivitat posa en relleu una teoria individualista de l'home dins de la societat que rebaixa i degrada de forma considerable el que ha de ser el nucli principal de la teoria jurídic-cèntrica de la realitat humana. Villey ens convida a retornar a Gai i a Ciceró. A més l'antropologia moral clàssica cal veure-la com alguna cosa que no fa més que girar entorn dels deures. Marcel Gauchet és també contemplat com a teòric dels drets humans, per qui en el tercer mil·lenni «la consagració dels drets humans és amb seguretat el fet polític i ideològic més important dels últims vint anys. És l'expressió del triomf de les democràcies». La política ha de regenerar-se perquè es reconegui el dret dels sense drets, la qual cosa porta a recórrer a la suggeridora idea recordada en un llibre del que és autor Stefano Rodotà i porta per títol el dret a tenir drets.

Paraules clau: Michel Villey, Gai, Ciceró, Marcel Gauchet, Stefano Rodotà.

1.Premessa

I diritti dell’uomo, secondo molti osservatori, non godono buona salute. O almeno, secondo altri osservatori più benevoli, non sembrano registrare un perfetto stato di salute. Il referto diagnostico riservato all’ideale, all’idea, all’ideologia, alla categoria (a seconda dei modi di intenderli) dei diritti dell’uomo pare non lasciare in proposito molte speranze: si tratterebbe semplicemente, ormai, di certificarne l’agonia, se non addirittura il decesso.

La contestazione, a tratti dura, alla quale i diritti dell’uomo sono sottoposti, quanto meno dall’inizio del XXI secolo, si arricchisce, col passare del tempo, di sempre nuovi elementi: si va dalla critica, spesso velata, all’inconsistenza della loro matrice teorica fino alla critica, mossa apertamente, alla pretesa inconcludenza, astrattezza e genericità delle formule declaratorie o pattizie che ne consacrano la valenza normativa. In generale, ai diritti dell’uomo si imputa una strutturale inidoneità ad essere realizzati, la qual cosa è ritenuta tale da inficiare i presupposti teoretici sui quali si pretende fondarli. I critici dei diritti dell’uomo, tuttavia, non sostano mai a immaginare, né tanto meno a proporre, che cosa sarebbe, o potrebbe diventare, un mondo senza i diritti dell’uomo: un mondo nel quale non abitasse una tensione, irrisolta ma non per questo inautentica, alla realizzazione di un’istanza che contesta programmaticamente il diritto di uno Stato, di una comunità, di un popolo a ergersi quale unico diritto vincolante per gli individui che risultino appartenere a una di queste grandezze storico-sociali che caratterizzano l’esperienza della civiltà umana.

L’elaborazione dei diritti dell’uomo è costata fatica, non solo intellettuale ma anche fisica: infatti, la storia dei diritti dell’uomo è costellata di sforzi teoretici e di contrasti ideali non meno che di lotte, conflitti, rivendicazioni spesso sviluppatisi oltre la soglia dell’asprezza cruenta. Prima di dichiararli estinti, o anche solo consunti o esauriti, ci sarebbe da prestare attenzione al prezzo che si pagherebbe a fronte di questa sorte. Un conto è, infatti, rilevare i limiti e le incongruenze, e le incoerenze che fatalmente interessano i diritti dell’uomo al pari di qualsiasi costruzione storico-ideale; un altro conto è decidere di liquidarli sulla base di questi stessi deficit, assunti come insuperabili. Si vedrà, nel corso di questa esposizione, che, criticati ‘da destra’ – da una posizione ‘classicistica’, come quella ascrivibile a Michel Villey –, oppure ‘da sinistra’ – come nel caso della lettura ‘progressista’ riconducibile a Marcel Gauchet –, i diritti dell’uomo rischiano di cadere con tutta l’impalcatura che li sorregge, e che sinteticamente possiamo identificare nella civiltà occidentale della libertà e della democrazia.

Inconsapevolmente o no, i critici più o meno accaniti dei diritti dell’uomo finiscono col segare il ramo sul quale stanno seduti, perché l’obiettivo che hanno di mira riguarda uno dei perni dell’architettura concettuale e istituzionale che sostiene l’Occidente in quanto area geoculturale che coltiva, almeno in linea di principio, il primato dell’uomo, declinato come suo inalienabile diritto, rispetto a qualsiasi altra istanza, sia essa di derivazione sociale, politica, economica, religiosa. L’espressione di questo fattore di caratterizzazione essenziale corrisponde al linguaggio, e alla cultura, dei diritti dell’uomo: colpire i diritti dell’uomo equivale a colpire la stessa civiltà occidentale, nei tratti di modernità che essa comunica al mondo intero sotto forma di globalizzazione, ma ancor più profondamente nelle premesse speculative che hanno generato il primato umanistico, prima ancora che tecnico-scientifico, dell’Occidente moderno. Portate alle conseguenze estreme, le critiche rivolte ai diritti dell’uomo, esemplificate nei nomi di Villey e di Gauchet, rivelano a contrario ciò che le determina ad essere quel che vorrebbero. Nel negare valore ai diritti dell’uomo, esse mostrano qual è la vera posta in gioco: una squalificazione di che cosa vuol dire Occidente in quanto diritti dell’uomo, in quanto versione attualizzata dell’umanesimo europeo, già greco, romano, ebraico e cristiano, postulato da una antropologia essenzialmente filosofica, umano-centrica.

2. Villey e i diritti dell’uomo

Cominciamo dunque da un autore, come Villey, che non ha risparmiato le sue dure critiche alla sostenibilità stessa di una locuzione come “diritti dell’uomo”. Nel suo lavoro dedicato a Il diritto e i diritti dell’uomo1, Villey esprime la sua tesi, peraltro già presente nell’insieme della sua opera2, senza troppe parafrasi: “La comparsa dei diritti dell’uomo attesta la decomposizione del concetto del diritto. Il loro avvento fu in correlazione con l’eclissi o il pervertimento, nella filosofia moderna individualista, dell’idea di giustizia e del suo strumento, la giurisprudenza. Questa aveva come fine la misura dei giusti rapporti”3. L’affacciarsi dei diritti dell’uomo sulla scena del dibattito pubblico coinciderebbe, per Villey, non con un trionfo ma addirittura con una crisi del diritto: una crisi che viene da lontano, e per la precisione dall’aver circoscritto la categoria diritto al mero diritto soggettivo. Premesso che, per Villey, noi non sappiamo che cosa è il diritto (sempre che si tratti di una cosa)4, la sua critica sferza, senza alcuna condiscendenza accademica, quei professori universitari che dedicano i loro sforzi a congressi, e a una gigantesca produzione scientifica a uso dei poteri pubblici, che mettono a tema i diritti dell’uomo a prescindere da una attenta e ponderata riflessione sul linguaggio che in essi si esprime, proprio a partire da che cosa è diventato, o rischia di diventare, il diritto5.

Lungi dal poter essere rintracciati in epoche precedenti alla moderna, i diritti dell’uomo sono, secondo Villey, un prodotto tipico della modernità6, e come tali vanno considerati, se si vuole intendere la loro effettiva portata. Che, al tempo in cui Villey scrive (1981), essi siano sponsorizzati anche da influenti autorità etico-religiose – segnatamente: Giovanni Paolo II, destinatario della dedica in epigrafe a Le droit et les droits de l’homme7 – non toglie nulla alla loro (pericolosa) carica di ambiguità. Anzi, l’approvazione e la presa in carico dei diritti dell’uomo da parte di istanze che fondamentalmente vi sarebbero estranee aggraverebbe la loro carica distruttiva di ciò che per secoli la tradizione, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, ha identificato col diritto. Se si pensa che Karol Wojtyla è passato alla Storia come il papa dei diritti dell’uomo, l’accusa è davvero grave. E il colpo che si vuole dare è diretto al centro della questione: i diritti dell’uomo sarebbero il sintomo, e non una risposta, di uno stato confusionale nel quale versa la modernità in quanto tale. Di questa confusione si renderebbe corresponsabile chi li adotta come bandiera di un mondo che si offre come proiezione degli individui umani interpretati quali portatori di diritti soggettivi.

Nulla di più estraneo al diritto, a parere di Villey, sarebbe invero la categoria della soggettività, base di elaborazione di una teoria individualistica dell’essere in società che avrebbe degradato l’antica concezione giuricentrica (se è concesso l’uso di questo neologismo) dell’universo sociale umano: ne sarebbe prova il disprezzo per il diritto, che curiosamente cresce col diffondersi dei diritti dell’uomo su scala globale. Questo paradosso risale (e l’osservazione di Villey potrebbe anche essere condivisa, sia pure in parte) ad autori che non fanno mistero della loro sostanziale indifferenza verso il diritto: Hobbes, Hume, Bentham, Wolff, Rousseau, Kant, Hegel, Durkheim, Weber avrebbero sì cercato di trovare una collocazione adeguata al diritto nella rispettiva costellazione concettuale, ma subordinandolo ultimamente ad altre istanze8: l’economia, la storia, la società, solo per citare quelle più ‘imponenti’. Si badi che Villey intenzionalmente non nomina Marx. Ci torneremo a tempo debito, perché si tratta di una dimenticanza solo apparente, e che svela, paradossalmente, la (pur essa) moderna convergenza, tutt’altro che involontaria, di Villey con la critica moderna dei diritti dell’uomo.

È vero che, in buona parte, i pensatori moderni del diritto non lo tematizzano nella sua essenzialità, ma piuttosto ne fanno un organo estrinseco all’agire sociale nel suo insieme9. È ancora più vero che “l’attuale espansione dei ‘Diritti dell’uomo’ implica anch’essa la negazione del positivismo legalista”10: una negazione che procede da quella stessa Scuola del Diritto naturale alla quale soltanto Villey rivendica titolo, di ascendenza aristotelico-tommasiana, per riaffermare la continuità della tradizione scolastica11.

Villey invita a tornare a Cicerone e, attraverso di lui, ad Aristotele: alla loro ‘scoperta’, alla loro ‘invenzione’ (nel significato latino di invenire) del diritto nei suoi caratteri essenziali di oggetto, proporzione, giusto mezzo tra due estremi12. Si tratterebbe in realtà di dover procedere a una ri-scoperta, schermata proprio dall’inflazione semantica che il lessico dei diritti dell’uomo fatalmente comporta. Qui Villey si scaglia contro la categoria di diritto ‘soggettivo’: un prodotto della Pandettistica che risentirebbe del linguaggio della filosofia tedesca. Si attribuisce a Savigny e a Windscheid di aver ritagliato sul diritto un abito che non corrisponde alla sua fisionomia: il diritto, da parte spettante a qualcuno, rapportato ad altri, in termini di giustizia, si sarebbe assimilato a Willensmacht, o potere di agire concesso all’individuo in virtù della sua libertà13. I diritti – soggettivi – dell’uomo sono da considerare come il risultato di una manipolazione arbitraria delle categorie impiegate dalla scienza giuridica romana: nelle Istituzioni di Gaio figurano le personae concrete, non la Persona umana in astratto, in un quadro di proporzioni tra uomini diversi14. L’inesistenza del concetto di diritto soggettivo, e del correlato soggetto umano di diritto, nella giurisprudenza romana è argomentata da Villey con dovizia di riferimenti puntuali alle fonti15. Essa viene fatta valere come prova dell’inesistenza in generale dei diritti dell’uomo nell’antichità. Anzi, sarebbe proprio una antropologia, per l’esattezza quella di Aristotele, a smentire una presunta inerenza dei diritti dell’uomo alla concezione greco-romana dell’etica e della politica.

Su questo punto può farsi avanti, tuttavia, una prima riserva: quando, peraltro giustamente, ricorda che l’antropologia morale classica ruota tutta attorno a doveri – doveri di ospitalità, di rispetto per i poveri, i supplicanti, i vecchi etc.16 –, Villey ne deriva l’inapplicabilità logica della categoria ‘diritto’ alla posizione dei beneficiari dell’obbligo. Con un esempio tratto dall’Eutifrone di Platone17, Villey nega che all’attribuzione di un dovere a qualcuno possa corrispondere, in capo a qualcun altro, una posizione propriamente giuridica, ossia un diritto in senso pieno. Ma è appunto questo argomento che può volgersi in un contro-argomento, forse non meno pesante: non sarà che la prima formulazione, nella quale la percezione di una pretesa, o di una libertà, di agire si cala, si dà nella forma di un dover agire, quale aspetto pratico di un più generale dover essere? È pur sempre a un qualcuno (lo schiavo dell’esempio platonico, piuttosto che il beneficiario dell’aggiudicazione di un bene materiale), individuabile quale centro di imputazione soggettiva di atti, che si deve qualcosa, che si tributa il riconoscimento di uno status ontologico diverso dalla res. L’ideologizzazione del diritto, e dei diritti dell’uomo, bersaglio di una critica più che legittima, non può però essere presa a pretesto di una più generale squalificazione del nesso essenziale tra l’uomo e il suo diritto. Questo nesso era talmente evidente allo stesso Gaio, che la sua summa divisio de iure personarum18 si distribuisce tra liberi e servi. Che il Settecento illuminista abbia enfatizzato i diritti dell’uomo, inteso nella astratta singolarità che verrà contestata per primo da Hegel19, non è un valido motivo per demolire dalle fondamenta una costruzione che, se davvero fosse stata coerente con le sue premesse, avrebbe potuto consacrarsi in diritti, e doveri, degli uomini. Su questo punto la lettura critica di Villey può convertirsi in utile fattore di ripensamento dell’idea di diritti autenticamente umani, nella misura in cui consente di rivolgere verso l’uomo20 il tema del diritto in tutta la sua ampiezza e complessità.

Se è vero, come vuole Villey, che «il diritto non conosce soggetti, conosce soltanto dei beneficari»21, è su questa ultima categoria che occorre concentrare l’attenzione. Che cosa significa essere beneficiario di qualcosa se non essere destinatario di un’azione apportatrice di un bene, posta in essere da qualcuno che avverta tale sua condotta come orientata al bene, all’interesse in senso lato di un altro? Se un individuo è o si ritiene portatore di un servizio, soccorso, aiuto, insomma di una prestazione da rendere a un altro individuo, questi si sentirà a sua volta autorizzato a percepirsi come titolare, prima che di una pretesa, di una attesa legittima. Il correlato di un obbligo gravante in capo a un individuo non è automaticamente il diritto di un altro, perché il contenuto di quanto si ritenga spettargli è dell’ordine di una attesa preparata dal beneficio che un altro, prima di poter dare, è. Può in tal senso essere promotore, fautore di bene solo chi a sua volta sia un bene. Si può dunque seguire Villey nelle sue riflessioni, ma a condizione che lo sviluppo della loro dinamica interna sia coerente con le premesse.

“Il diritto che si pretenderebbe di inferire dall’idea astratta di anthropos, dalla sola ‘natura’ generica dell’uomo, non sarebbe che informe, incipiente, appena un embrione di diritto. L’Uomo non ha un diritto, non è materia della scienza giuridica (homo, nel linguaggio giuridico, avrebbe piuttosto il significato di schiavo). Solo degli uomini hanno ‘dei diritti’ diversi”22, purché la pluralità degli attori umani non venga interpretata come un fattore di mera disuguaglianza (come Villey inclina23) ma come fattore di intensificazione dell’orientamento ad personam che la promozione del bene dell’altro realizza per suo intrinseco dinamismo. Anche ammesso che il diritto non sia fatto per tutti gli uomini, ciò è possibile solo nel senso che diritti dichiarati hanno bisogno, per esistere, di essere definiti24. Lo riconosce lo stesso Villey, quando coglie negli iura precisamente configurati nell’esperienza giuridica romana ‘diritti’ a tutti gli effetti25. Il punto è che, per estensione, non arbitraria, perché autorizzata dalla dimensione relazionale in cui il fenomeno giuridico viene a calarsi, dandole forma compiuta, quanto viene interpretato come dovuto ad altri diviene tema, per questi altri, di un diritto che, da parte attribuita a ciascuno secondo misura, assume la cifra, l’indice rivelativo di un soggetto personale. Quella che per Villey è soltanto una forzatura indebita (in fondo non senza ragione, visti certi eccessi interpretativi di marca neo-illuministica) corrisponde invero allo svolgimento di un medesimo tema. Non vorremmo che l’enfasi polemica avesse oscurato, nella lettura di Villey, un elemento che emerge all’attenzione in risvolti che è difficile non scorgere.

Questa enfasi si dirige in modo particolare nei confronti di un cattolicesimo che, sotto l’influenza del nominalismo e dell’agostinismo nelle loro varie tendenze, avrebbe registrato una sorta di ‘corruzione’ dell’identità stessa del diritto, ereditata dalla tradizione greco-romana. Un cristianesimo autenticamente cattolico, per Villey, non può che essere ostile ai diritti dell’uomo, almeno nella forma che essi hanno assunto a partire da Hobbes, e da Locke. Dall’inizio del capitolo XIV del Leviathan Villey trae motivo per estendere il raggio della sua accusa: «Il diritto di natura, che gli scrittori comunemente chiamano jus naturale, è la libertà che ogni uomo ha di usare il suo potere, come egli vuole, per la preservazione della propria natura, vale a dire, della propria vita, e per conseguenza, di fare qualunque cosa nel suo giudizio e nella sua ragione egli concepirà essere il mezzo più atto a ciò»26. Questo testo, del 1651, è individuato da Villey come il manifesto programmatico dell’ideologia dei diritti dell’uomo, quanto a forma, contenuto e funzione originale27. Hobbes viene indicato per giunta come fondatore, oltre che della politica moderna, altresì della stessa scienza giuridica moderna, in termini che sconfinano in un vero proprio disprezzo28. I tre elementi fondamentali che connotano la dottrina hobbesiana del diritto – dell’uomo – e della politica, dogma della ‘sovranità’, positivismo giuridico e diritti soggettivi29, sono considerati da Villey quanto di più incompatibile non solo con la visione cristiano-cattolica del diritto (ultimamente inessenziale, testimoni i Vangeli…) ma con tutta una scuola classica improntata all’etica aristotelica, e sviluppata da Tommaso d’Aquino.

Il discorso non cambia se rapportato a Locke: Rights of Men e Rights of Mankind figurano nei due Trattati sul governo civile come parole d’ordine alle quali ispirare il nuovo regime dell’individuo proprietario, titolare di diritti tendenzialmente assoluti30, e perciò giuridicamente e politicamente libero. Anche nei confronti della filosofia lockiana dei diritti Villey non risparmia un giudizio di secca squalifica, che pure parrebbe, se non condivisibile, per lo meno ammissibile da un punto d’osservazione di matrice neo-tradizionalistica, ove non sfociasse, in maniera sorprendente, in una aperta condivisione della critica marxiana dei diritti dell’uomo, quale si può incontrare nella Questione ebraica, e che peraltro esprime una riconsiderazione affatto moderna dei diritti dell’uomo31.

In chiusura del suo libro Villey denuncia di essere, suo malgrado, pienamente in linea con la modernità: con una modernità che scava sotto la stessa terra sulla quale poggia, che sconfessa le sue stesse matrici storico-ideali, col pretesto di un autosuperamento in direzione di una piena umanizzazione della natura. È probabile che Villey si sia lasciato prendere la mano dalla vis polemica, non accorgendosi di incorrere in un equivoco capace di smontare tutta la sua costruzione, pur dotata di molti elementi apprezzabili. Dà tuttavia da pensare una convergenza dichiarata tanto alla leggera con un pensatore, come Marx, così estraneo al percorso personale e intellettuale di Villey. Non sembri tuttavia fuori luogo un accostamento così dichiarato e volontario: la critica dei diritti personali dell’uomo, sia essa impostata in nome di una classicità negletta, sia essa spinta dall’esigenza di storicizzare integralmente il fenomeno umano in tutte le sue espressioni, a cominciare dal diritto, si risolve fatalmente nella morte del diritto. Questo destino, scongiurato da Villey, perseguito da Marx, trova entrambi disposti a prepararlo senza esitazioni.

La mortificazione dei diritti dell’uomo lascia sul terreno il cadavere del diritto: basta leggere in proposito quel che Marx dichiara. L’uomo come essere sovrano viene tacciato da Marx di irrealtà: nella democrazia politica, in quanto cristiana, si tratta solo «dell’uomo nel suo aspetto fenomenico, incivile e asociale, l’uomo nella sua esistenza casuale, così come capita»32; l’uomo nella sua esistenza singolare, cifrata nell’ebraismo in quanto universale elemento antisociale33, è un soggetto del quale si predicano diritti, mistificazione dell’egoismo34. I diritti dell’uomo sarebbero, in ultima analisi, diritti di un’umanità molto concreta, dei citoyens, dei borghesi elevati a paradigma di una società di individui liberi. I diritti dell’uomo nominano quanto nell’uomo ci sarebbe ancora di irriducibilmente proprio, di non ancora reintegrato nel suo essere reale ente di genere35. Ma Villey si è reso conto di quale punto di convergenza ha raggiunto? All’apice di una critica anti-moderna dei diritti dell’uomo si ritrova una loro ultra-moderna squalificazione: un medesimo rifiuto del preteso carattere ‘asociale’, e anti-storico, che i diritti del singolo uomo evocano, vuoi in nome di un supremo ordine gerarchicamente strutturato del mondo naturale e umano, di marca cristiana villeyana, vuoi in nome di una umanità finalmente emancipata dal fondamento umano dell’ebraismo e del cristianesimo, marxianamente indicizzato dal diritto di essere religiosi quale centro dei diritti dell’uomo, così come sancito in particolare nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1793 e nella Costituzione della Pennsylvania36.

3. Gauchet e i diritti dell’uomo

Villey, tanto fedele alla lezione degli Antichi da finire… filomarxiano, si ritrova pertanto in buona compagnia di un autore molto ‘moderno’, di un filosofo della politica che, muovendo da premesse radicalmente diverse, fa della critica dei diritti dell’uomo, elevati al piedistallo ideologico della ‘nuova’ democrazia post-ideologica, la leva di smontaggio dei presupposti teorici della società occidentale uscita vittoriosa dal confronto epocale con il socialismo reale di marca sovietica. All’inizio del nuovo millennio, Gauchet riconosce che «la consacrazione di diritti umani è di sicuro il fatto politico e ideologico più importante degli ultimi vent’anni. È l’espressione del trionfo delle democrazie»37. Gauchet non esita tuttavia a soggiungere che i diritti dell’uomo, «diventando comunque il nucleo di senso delle democrazie, sono diventati al tempo stesso la ragione profonda delle loro difficoltà politiche»38, acuite dal dopo-11 settembre e dalla crisi economico-finanziaria che attanaglia l’Occidente, patria della democrazia dei diritti dell’uomo. Lungi dall’esaurire la carica rivoluzionaria da loro comunicata alla progressiva democratizzazione della società, i diritti dell’uomo vengono oggi ad assimilarsi, per un’imprevedibile evoluzione storico-sociale, alla norma di base della coscienza collettiva e l’unità di misura dell’azione pubblica39.

Assurti al rango di fondamenti, di veri e propri principi di definizione40, i diritti dell’uomo «sono diventati davvero, e in grande, (…) l’anima e l’ancora di ogni politica»41, determinando un fenomeno sconcertante: «un approfondimento innegabile della democrazia, per certi versi, che implica però, per altri versi, un suo svuotamento altrettanto evidente»42, donde si ha la contraddizione pratica che «la democrazia non è più contestata: corre il rischio di diventare fantomatica, come se si dissanguasse dal didentro, per effetto dei propri ideali. Garantendo le proprie basi di diritto, è come se perdesse la propria capacità di governarsi»43. La tesi di Gauchet è che, nell’annunciarsi in veste di norma fondamentale della democrazia, i diritti dell’uomo ne determinano contestualmente la crisi, ivi compresa la crisi economica. Non estraneo a questo processo è, per Gauchet, il nesso tra diritti dell’uomo e avvento della ‘società dell’informazione’, col crescente potere dei media che l’accompagna44.

Premesso che, ad avviso di Gauchet, per una adeguata ricostruzione della genealogia dei diritti dell’uomo quale mito fondatore della società democratica, «ci vorrebbe una storia dettagliata dell’individuo di diritto all’interno della modernità»45, l’ideologizzazione della democrazia ad opera dei diritti dell’uomo segnala un coefficiente di penetrazione del diritto all’interno della politica che costituirebbe un serio problema per la sussistenza degli elementi basilari del nostro mondo: oltre al giuridico, l’elemento politico e l’elemento storico-sociale46. L’assegnazione al diritto del ruolo esclusivo di ridefinizione della democrazia, realizzandone un’indubbia rifioritura, se non una rivincita attraverso i diritti dell’uomo47, «sortirebbe l’effetto irreversibile di conferirgli un valore pressoché assoluto»48, condannando la democrazia a un esito ultimo, e irreversibile, di spoliticizzazione della sua stessa identità.

Sorgerebbe a questo punto una domanda: la riscossa del diritto comporta necessariamente una sua assolutizzazione im-politica, o può rappresentare una opportunità di ripensamento del primato teorico-pratico al quale la politica non cessa di ambire, anche attraverso una strumentalizzazione dei diritti dell’uomo? Gauchet propende chiaramente per una svalutazione del ruolo giocato dai diritti dell’uomo ai fini di un più generale riequilibrio dei rapporti fra diritto e politica. Si vedrà che alcuni degli argomenti sollevati da Gauchet possono essere rovesciati al servizio della tesi opposta: che cioè, pur quando siano spinti al massimo grado di apicalità ideale, i diritti dell’uomo oppongono comunque un limite alla pretesa della politica di proporsi come un orizzonte di totalità. Che questo possa accadere in forza di un rinnovato primato del diritto interroga non tanto il diritto nella sua capacità di risignificare alcuni tratti essenziali del politico, quanto la politica stessa nella sua attitudine a rispondere – come politica per l’uomo – alle sfide che il diritto dell’uomo le lancia, più o meno apertamente. Una umanizzazione della politica può anzi essere provocata e messa in moto quanto più avanza un processo di caratterizzazione della politica in termini essenzialmente giuridici.

Ripetendo una tesi centrale in tutta la sua produzione intellettuale49, Gauchet indica nella modernità la svolta che ha marcato il passaggio dalla struttura religiosa dell’istituzione umana, fondamentalmente eteronoma, a una struttura storico-sociale in quanto politico-giuridica, essenzialmente autonoma50. L’autonomizzazione istituzionale è stata resa possibile in particolare dal principio di legittimazione universale che è rappresentato dall’individuo di diritto, correlato della sovranità dello Stato51. In questo passaggio si insedia il principio di legittimità che coincide con i diritti dell’uomo52, inedito fattore di autocostituzione dell’umanità in chiave giuridico-politica.

Il principio di individualità ridisegna i diritti dell’uomo nuovo, liberato da qualunque vincolo eteronomico, di carattere non solo metafisico-trascendente ma anche, in ultima analisi, sociale-storico53.

La ristrutturazione della matrice della democrazia politica nel segno di una democrazia a forte significazione giuridica sostituisce a grandi valori come la tradizione, il progresso o la rivoluzione, o la giustizia sociale e l’uguaglianza, i diritti dell’uomo come istanza suprema di legittimità, facente funzione di idea del politico, di scienza della società e di linea di orientamento dell’azione storica54. L’essere-insieme e il dover essere trovano pertanto la loro ragione fondativa nei diritti dell’uomo, che per Gauchet corrispondono a uno strumento di autocostituzione del sociale, ma che – se si segue fino in fondo il suo ragionamento – coprono tutto lo spazio dell’autorappresentazione stessa del sociale. Naturalmente tutto questo, a parere di Gauchet, arreca un danno serio alla fisionomia, e alla fisiologia, della coesistenza civile, perché si osserva che «mai in passato i principi primi della democrazia avevano suscitato un’adesione tanto vasta e tanto convinta, da quando la democrazia era comparsa, due secoli or sono, nella sua configurazione moderna. E mai prima il suo effettivo esercizio aveva rischiato di ridursi a una conchiglia vuota, a un semplice teatrino delle ombre: mai la democrazia era stata così prossima a dimenticare persino la sua stessa nozione, in una ubriacatura generale per le verità primordiali»55.

Ma la responsabilità delle derive della democrazia sarebbe da imputare tutta ai diritti dell’uomo? Il logoramento delle democrazie occidentali di stampo liberale, a fronte di un inatteso consolidamento di democrazie più o meno autoritarie, e ‘sovraniste’, nell’area geopolitica non occidentale, sarebbe una conseguenza fatale della diffusione del verbo dei diritti dell’uomo? O non si tratterà, viceversa, di ‘scaricare’ le responsabilità di una politica senza più ideali e cose da dire su di un obiettivo pretestuoso quanto genericamente individuato? È facile prendersela con i diritti dell’uomo quando, come nel caso di Villey, non si hanno più argomenti per parlare al presente con la voce della tradizione scolastica, o quando, come nel caso di Gauchet, si vuole deviare il corso di una necessaria autocritica della politica verso obiettivi polemici spesso più immaginari che reali. Non ci si interroga, a questo ultimo riguardo, su quanto una politica, non dei, ma per i diritti dell’uomo potrebbe ancora avere da dire? Di quante cause perse, di quante vittime innocenti il mondo ha ancora bisogno, per accorgersi di aver bisogno di un canone universale che permetta di forzare i limiti particolaristici nei quali fatalmente incorre qualunque linea o azione politica, pur quando sia dettata dai migliori propositi di solidarietà verso i deboli, gli oppressi, i poveri? Il tasso di giuridicità della politica, che comunque i diritti dell’uomo hanno contribuito a elevare, non può essere visto solo, o innanzitutto, come un pericolo per la democrazia, ma anche come una possibilità di rimessa in discussione della politica a partire da un confronto serrato e costruttivo col diritto. Una prevenzione verso i diritti dell’uomo mette al riparo da ipocrisie, contraddizioni, equivoci, malintesi di ogni genere, ma fissa la politica su partiti presi, questi sì, talora violentemente ideologici.

Gauchet ritiene di poter identificare nei diritti dell’uomo l’espressione di una ideologia unica che, sotto il pretesto di una liberazione integrale dell’individuo, e delle sue aspirazioni a ogni possibile differenziazione di aspettative, desideri, progetti, instaura un conformismo senza precedenti56: «il diritto, nella forma dei diritti umani, si erge a verità assoluta della democrazia, rimuovendo ogni considerazione per il politico e per il sociale-storico, e prendendone addirittura il posto»57. I diritti dell’uomo presidierebbero le prerogative di un individuo emancipato in primo luogo dall’idea stessa di chiedere spiegazioni a riguardo della necessità di un cambiamento, piuttosto che a riguardo della necessità di tutelare uno status quo. Diritti dell’uomo che invocano tutto, e il suo contrario, sortiscono l’effetto di un asservimento al potere maggiore di quanto abbia potuto prodursi in passato. Da qui alla contestazione del carattere utopistico dei diritti dell’uomo il passo è breve58. Il pensiero, e la prassi, unici dei diritti dell’uomo si incarnano peraltro in nuove figure che surrogano il vecchio stereotipo del militante: si tratta degli ‘specialisti della denuncia’, giornalisti o politici portatori di un nuovo messaggio di ‘critica sociale’, che integra ogni possibile forma di protesta in altrettante forme di organizzazione che prescindono dai partiti – in quanto agenzie di formazione del consenso, e del dissenso, nella dialettica democratica tradizionale –, per radicalizzarsi in una dimensione associativa a geometria variabile59.

Come dare torto a una simile analisi? L’urgenza e la semplificazione, i nuovi slogan dettati dai media a tutti i livelli della circolazione delle informazioni, delle idee, delle ‘tendenze’ del momento, sono i vettori della trasformazione di un insieme societario che sempre meno denota le caratteristiche di un ‘popolo’ o di una ‘comunità’, e sempre più mostra di essere un ‘aggregato’ di interessi individuali fortemente instabile e precario. La politica delle intenzioni, e degli annunci, si uniforma a uno standard sperimentato già nella comunicazione massmediatica, che nell’era di internet e dei social network accentua un processo di rapida dissoluzione dei modi di produzione della politica, anzitutto a quei livelli dove la proposta, o la contestazione, si erano da sempre generati, vale a dire l’educazione e la riflessione: «mai l’offerta di educazione era stata tanto alta, ma ad essa risponde solo una domanda di qualificazione»60, ovvero una aspettativa solo funzionale (e si sa che, dove c’è funzione, c’è sistema, ma quale?). Non si può negare un fenomeno sotto gli occhi di tutti: una drammatica regressione intellettuale, paradossalmente favorita da una società che della conoscenza, dell’istruzione, del sapere ha fatto un’insegna. Si tratti di una eterogenesi dei fini, o di una controtendenza non prevista, sta di fatto che l’imbarbarimento tecnologizzante della civiltà occidentale non è più il rischio lamentato da Gauchet nel 200161, per certi versi è già, a poco più di un decennio di distanza, una realtà con la quale fare i conti.

Quando si creano situazioni di crisi, sembra che si debba trovare a tutti i costi un colpevole nel soggetto che accusa la crisi; quando è in crisi la libertà, sembra che il problema debba essere la libertà, e così via per la democrazia e quant’altro. Se i diritti dell’uomo non godono buona reputazione, perché magari non vengono rispettati dappertutto o ‘implementati’ con la stessa efficacia, il problema saranno i diritti dell’uomo. L’inflazione del linguaggio dei diritti ha fatto sicuramente la sua parte nell’acuire la problematicità di un approccio integrale alla crisi generalizzata della politica, al punto che Gauchet auspica una fede capace di contrapporsi alla fede nel diritto, rea, quest’ultima, di aver contribuito al discredito della politica62. Gauchet formalizza l’attacco all’elemento giuridico in termini inequivocabili: «il laborioso addomesticamento del politico e del sociale-storico ha finito per rendere inaddomesticabile la componente giuridica»63, in un modo e in termini tali che i diritti dell’uomo «dicono forte e chiaro perché e sulla base di che cosa noi tutti stiamo insieme: in compenso, però, non ci dicono in che modo concepire e controllare la configurazione effettiva dell’essere-insieme»64. Gauchet finisce con l’ammettere, tra le righe delle righe, che, se può esprimere liberamente il suo pensiero, lo deve pur sempre a un qualche documento internazionalmente sancito, che gli riconosce – non: che gli concede – questo suo diritto come preesistente a qualunque forma di politicità organizzata. Lo stesso Villey può difendere il diritto contro i diritti dell’uomo, e contro i loro stessi pretesi difensori65, grazie a un diritto fondamentale di critica che gli viene riconosciuto – non: attribuito – in forza di una finalizzazione del sociale all’individuale che, quanto meno in via di principio, i diritti dell’uomo presuppongono e ad un tempo sollecitano e favoriscono.

4. Spunti conclusivi

La conclusione del discorso di Gauchet riflette una fiducia nei mezzi, e negli scopi, della politica che, nella temperie attuale, richiederebbe di essere rimodulata, nonché sicuramente aggiornata. Per compensare la progressiva giuridizzazione delle democrazie Gauchet propone di considerare la federazione delle nazioni europee come il luogo nel quale «si può evidenziare al meglio la funzione di mediazione che fa dello Stato e della nazione altrettanti strumenti indispensabili della democrazia – mediazione della comunità politica con se stessa e mediazione di una comunità storica singolare con l’universo della civiltà»66. Stato, nazione, comunità politica nominano altrettante figure di una filosofia della politica che ruota attorno a una categoria dialettica – la mediazione – che rivela una immediata ascendenza hegeliana ma che, proprio per questo, esigerebbe di essere acquisita alla riflessione con tutto il peso che il nesso tra diritto, Storia e spirito hegelianamente implica. Si scoprirebbe, probabilmente, che la forza dello spirito è l’unico antidoto, di efficacia peraltro relativa, al fallimento della politica, sia esso declinato in antipolitica o in post-democrazia67 – o in una democrazia che, per Gauchet, si ritorca contro se stessa68 –, e che la rigenerazione della politica non può che procedere dalla rianimazione della causa (anche politicamente) giusta dei ‘senza diritti’. I diritti dell’uomo potrebbero in tal senso essere riletti come il diritto dei senza diritti69, come l’espressione di uno ‘spirito del diritto’ che si annuncia, per opposizione, lì dove la forza del più forte (economicamente, socialmente, politicamente) tende non ad assistere, ma a prevalere arbitrariamente sulle ragioni del più debole: donna, bambino, concepito, anziano, disabile, emarginato, minoranza etnica, culturale o religiosa oppressa, vittima potenziale e attuale di persecuzione o di ostracismo.

Comunicandosi alla politica, lo ‘spirito dei diritti dell’uomo’ la sollecita a interrogarsi sui suoi stessi fondamenti, anche a rischio di vedersi trascinato, a torto o a ragione, nella lista dei responsabili dei suoi fallimenti. Ne va della opportunità per la politica e, di conseguenza, per l’economia, di confrontarsi con necessità diverse da quelle imposte, rispettivamente, dalle logiche del potere e del profitto. Ne va, in altre parole, della possibilità che una politica giuridicamente ‘sensibile’ si approfondisca, e si rimodelli, quale momento particolare di universalizzazione delle istanze individuali attraverso, ma anche al di là delle pur necessarie mediazioni istituzionali che le comunità di diverso grado – prestatuali, statuali, nazionali, sovranazionali – possono assicurare. In questo senso il diritto dei senza diritti può diventare la tensione interna a una ragione politica che parametri le condizioni di possibilità del sociale a una effettiva e intensa promozione di quanto in ogni uomo vi è di autenticamente individuale, ossia singolarmente eccezionale: cosa che non appartiene alle potenzialità della politica, ma solo a un diritto impegnato da una antropologia filosoficamente orientata, e consapevole della posta in gioco sottesa alla prospettiva di una vita democraticamente animata e articolata.

Recibido el 15 de febrero de 2014. Admitido el 30 de junio de 2014

* Ordinario di Filosofia del diritto. Università del Molise.

NOTAS

1 Michel Villey, Il diritto e i diritti dell’uomo, Cantagalli, Siena, 2009.

2 Cfr. Id., La formazione del pensiero giuridico moderno, Jaca Book, Milano, 1986. In generale, per la letteratura critica su Villey si rinvia a Stéphane Bauzon, Il mestiere del giurista. Il diritto politico nella prospettiva di Michel Villey, Giuffrè, Milano, 2001.

3 Michel Villey, Il diritto e i diritti dell’uomo, cit., p. 183.

4 Cfr. ivi, p. 41.

5 Cfr. ivi, p. 27.

6 Cfr. ibidem.

7 Cfr. Id., Le droit et les droits de l’homme, PUF, Paris, 1983.

8 Cfr. Id., Il diritto e i diritti dell’uomo, cit., p. 37.

9 Cfr. ivi, p. 38.

10 Ivi, p. 39.

11 Cfr. ibidem.

12 Cfr. ivi, pp. 62-70.

13 Cfr. ivi, p. 87.

14 Cfr. ivi, p. 90.

15 Cfr. ivi, pp. 95-98. Forti riserve sono peraltro avanzate al riguardo da Renato Rabbi-Baldi Cabanillas, Michel Villey e il tema dei Diritti Umani: una critica dal punto di vista dei suoi testi e delle sue fonti, in ‘Rivista internazionale di filosofia del diritto’, 4/2011, p. 565.

16 Cfr. Michel Villey, Il diritto e i diritti dell’uomo, cit., p. 105.

17 Cfr. ivi, p.108-9. Il riferimento è a Platone, Eutifrone, in Opere complete, IV a-b, pp. 11-12.

18 Cfr. Gai Institutiones, 1.48 e 1.50-51.

19 Si rinvia alla presentazione della Rechtszustand, quale si legge in Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello spirito, Rusconi, Milano, 1995, p. 645: «L’universale, questo spirito morto frantumato negli atomi della molteplicità assoluta degli individui, è un’uguaglianza in cui Tutti hanno il valore di Ciascuno, valgono cioè come persone». In questa ottica i diritti dell’uomo contraddicono, da Hegel a Villey, fino a Gauchet, la prospettazione di una figura compiuta del diritto in quanto diritto storico-politico. La condizione giuridica rappresentata da Hegel è, viceversa, il livello al quale si attesta la piena pensabilità, e proponibilità, dei diritti di ciascun uomo in chiave universale.

20 Cfr. Xavier Dijon, Les droits tournés vers l’homme, Cerf, Paris, 2009.

21 Michel Villey, Il diritto e i diritti dell’uomo, cit., p. 116.

22 Ivi, p. 120.

23 Cfr. ivi, pp. 119-120.

24 Cfr. ivi, p. 122.

25 Cfr. ivi, p. 124.

26 Thomas Hobbes, Leviatano, Fabbri, Milano, 2004, I, p. 124.

27 Cfr. Michel Villey, Il diritto e i diritti dell’uomo, cit., p. 162.

28 Cfr. ivi, p. 163.

29 Cfr. ivi, p. 168.

30 Cfr. ivi, p. 170 ss.

31 Cfr. ivi, p. 181.

32 Karl Marx, Sulla questione ebraica, Bompiani, Milano, 2010, p. 129.

33 Cfr. ivi, p. 165.

34 Cfr. ivi, p. 155.

35 Cfr. ivi, p. 129.

36 Cfr. ivi, p. 137.

37 Marcel Gauchet, I diritti umani come politica, in ‘MicroMega’, 5/2001, p. 135.

38 Ivi, p. 136.

39 Cfr. ivi, p. 138.

40 Cfr. ibidem.

41 Ivi, p. 139.

42 Ibidem.

43 Ibidem.

44 Cfr. ibidem.

45 Ivi, p. 140.

46 Ivi, p. 141.

47 Cfr. ibidem, p. 141.

48 Ibidem.

49 Cfr. in particolare Id., La religione nella democrazia, Dedalo, Bari, 2009.

50 Cfr. Id., I diritti umani come politica, loc. cit.

51 Cfr. ivi, p. 142.

52 Cfr. ibidem.

53 Cfr. ivi, p. 145.

54 Cfr. ivi, p. 148.

55 Ivi, p. 149.

56 Cfr. ivi, p. 152-153.

57 Ivi, p. 154.

58 Cfr. ivi, p. 155.

59 Cfr. ivi, p. 156.

60 Ivi, p. 163.

61 Cfr. ivi, p. 165.

62 Cfr. ivi, p. 166.

63 Ivi, p. 168.

64 Ivi, p. 170.

65 Cfr. Gildas Richard, Les droits de l’homme sous la menace de leurs défenseurs, che si trova in http://philo.pourtous.free.fr/Articles/Gildas/droits_de_l'homme.htm.

66 Ivi, p. 172.

67 Si veda in particolare C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2003.

68 Cfr. Id., I diritti umani come politica, cit., p. 168.

69 Il conio di questa locuzione richiama solo per assonanza lessicale, e non per i contenuti né per l’impostazione, Il diritto di avere diritti di Stefano Rodotà (Laterza, Roma-Bari, 2012).




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