Revista europea de historia de las ideas políticas y de las instituciones públicas


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Depósito Legal: MA 2135-2014

Presidente del C.R.: Antonio Ortega Carrillo de Albornoz
Director: Manuel J. Peláez
Editor: Juan Carlos Martínez Coll


UOMINI CHE DECIDONO PER LE DONNE. IL SUFFRAGIO FEMMINILE NEL DIBATTITO PARLAMENTARE DELL’ITALIA POST UNITARIA (1861-1920)

Loredana GARLATI*

Para citar este artículo puede utilizarse el siguiente formato:

Loredana Garlati (2015): «Uomini che decidono per le donne. Il suffragio femminile nel dibattito parlamentare dell‘Italia post unitaria (1861-1920)», en Revista europea de historia de las ideas políticas y de las instituciones públicas, nº 9 (diciembre 2015).

Riassunto: Lo spunto di questo saggio è offerto da un lavoro di Maurice Duverger, risalente agli anni Cinquanta. In cui l’autore, su invito dell’Unesco, esaminava l’influenza del voto politico delle donne in quatro paesi europei, al fine de verificare, come recita il titolo stesso dell’opera, “La participation des femmes à la vie politique”. Negli anni in cui Duverger dava alle stampe la sua analisi, le donne italiane avevano da poco meno di un decennio visti riconosciuti il loro diritti politici e, per la prima volta dall’Unità, avevano partecipato alle elezioni indette dopo la seconda guerra mondiale. Il percorso per giungere a tale conquista fu lungo e tormentato, sebbene il tema del suffragio femminile si era posto come una delle priorità del neonato Stato italiano. Attraverso il dibattito che dal 1861 si trascinò stancamente in Parlamento fino agli anni Venti del Novecento, è possibile ricostruire il clima non solo politico, ma anche culturale dell’Italia del tempo. Le aule parlamentari, al cui interno giungeva l’eco del mutato quadro socio-economico che vedeva le donne accompagnare al tradizionale ruolo di moglie e di madre, quello di lavoratrici, rimasero tuttavia sorde ad ogni istanza di cambiamento, sia con riferimento alla concessione del voto amministrativo che di quello politico. Le lunghe sessioni di discussioni, che spesso videro esponenti di aree politiche diverse condividere le medesime posizioni sulla questione dell’elettorato femminile, sono qui analizzate attraverso i documenti dell’epoca. Ne esce uno spaccato degli anni compresi tra il 1861 al 1920 in cui personaggi di spicco della politica italiana, pur se mossi in altri in altri ambiti da slanci riformistici, mostravano chiusure di fronte a questo tema, offrendo della donna un’immagine intrisa di luoghi comuni e vecchi cliché, mentre altri si rivelavano precoci sostenitori di tesi egualitarie. Occorsero due guerre perché le donne vedessero dapprima abolito l’istituto dell’autorizzazione maritale, contemplato nel codice del 1865, e poi permesso l’ingresso nella vita politica da elettrici ed eleggibili: in entrambi i casi si trattò di una sorta di ricompensa per il valore dimostrato nei difficili momenti bellici che sconvolsero gli assetti mondiali.

Parole chiave: Diritto di voto, Donne, Parlamento, Suffragio femminile, 1861-1920.

Resumen: La oportunidad de esta investigación no es otra que el homenaje tributado a Maurice Duverger, referido a los años cincuenta del pasado siglo XX, en que el autor, respondiendo a una invitación de la UNESCO, examinó la influencia del voto político de las mujeres en cuatro países europeos, a fin de verificar, como indicaba el título mismo de su libro, “La participación de las mujeres en la vida política”. En los años en que Maurice Duverger hacía pasar por los tórculos de la imprenta su análisis científico, las mujeres italianas habían logrado poco menos de un decenio antes el ver reconocidos sus derechos políticos y, por primera vez desde la Unidad, habían participado en las elecciones mismas tras la Segunda Guerra mundial. El camino para llegar a tal logro había sido largo y plagado de tormentas, a pesar de que el tema del sufragio femenino se había situado como una de las prioridades del naciente Estado italiano. A través del debate que, desde 1861, se llevó a cabo cansinamente en los años veinte del siglo XX, resulta posible reconstruir el clima no sólo político sino también cultural de la Italia de la época. Las aulas parlamentarias en cuyo interior llegaba el eco del cambio socio-económico, que veía a las mujeres que, además del desempeño de sus tradicionales cometidos de esposa y madre, contaban con el de trabajadoras, permanecieron con los oidos tapados ante cualquier sugerencia de cambio, tanto con referencia a la concesión del voto administrativo como el político. Las largas sesiones de discusiones que con frecuencia se llevaba a cabo por parte de representantes de diversas ideologías y sensibilidades políticas, sin embargo pusieron de relieve la coincidencia de posturas sobre la cuestión del electorado femenino. En el presente artículo las analizamos a través de documentos de la época. Presentamos un retrato de los años comprendidos entre 1861 y 1920 en el que personajes de relieve de la política italiana, a pesar de moverse en otros ámbitos dentro de parámetros reformistas, mostraban una cerrazón notable frente a este tema, ofreciendo una imagen de la mujer llena de lugares comunes y de viejos clichés, mientras que otros se declaraban precoces defensores de las tesis igualitarias. Se sucedieron dos guerras antes de que las mujeres vieran abolida la institución de la autorización marital, contemplada en el Código de 1865, y de que fuera admitido el ingreso en la vida política del sufragio activo y pasivo de la mujer. En ambos casos se trató de una recompensa por el valor demostrado en los difíciles momentos bélicos que convulsionaron, a nivel mundial, los fundamentos y raíces de muchos países y civilizaciones.

Palabras clave: Derecho de voto, Mujeres, Parlamento, Sufragio femenino, 1861-1920.

«Le rivendicazioni femminili hanno due implacabili nemici:
il ridicolo ed il pregiudizio.
Il ridicolo è un’arma micidiale,
di cui si servono talvolta anche le assemblee politiche,
per abbattere o addirittura seppellire, con una risata,
un ideale, anche nobile, un uomo, od un partito.
Il pregiudizio poi, date le nostre tradizioni, la nostra coltura,
la nostra mentalità, è così radicato nei nostri cervelli
che, quando crediamo di averlo cacciato,
vi è forse e vi domina più prepotente di prima»1.


1. Duverger e il voto femminile

«L’égalité de l’homme et de la femme en matière de droits politiques est établie par un grand nombre de constitutions, de codes et de lois. Rares sont les pays modernes qui ne l’ont point proclamée […].

Dans quelle mesure les faits coïncident-ils avec le droit ? Dans quelle mesure l’égalité juridique entre les sexes s’accompagne-t-elle d’une égalité réelle ? Dans quelle mesure les femmes exercent-elles pratiquement les prérogatives politiques qui leur sont officiellement reconnues ?»2.

Così esordiva Maurice Duverger, allora professore di Scienze politiche alle Università di Parigi e di Bordeaux, presentando la ricerca (relativa agli anni 1952-1953) sulla partecipazione delle donne alla vita politica. L’indagine era stata intrapresa per conto del Dipartimento di scienze sociali dell’Unesco, su incarico della Commissione dell’ONU deputata a svolgere uno studio sulla condizione femminile.

Il testo, pubblicato nel 1955, rappresentava il compendio di quattro rapporti nazionali coinvolgenti la Repubblica federale tedesca, la Francia, la Norvegia e la Jugoslavia.

Duverger, in qualità di rapporteur général, aveva coordinato i lavori di una commissione formata da sette rapporteurs nationaux, due per ogni paese interessato dall’analisi, fatta eccezione per la Germania che si era avvalsa di un solo rappresentante.

La ricerca si era svolta in due fasi: ad un preliminare e sommario esame comparativo di quindici paesi sparsi in quattro continenti (sette nazioni per l’Europa, tre per l’America, cinque tra Africa e Asia)3 aveva fatto seguito un approfondimento concernente i soli quattro Stati prima ricordati, selezionati dall’Unesco4.

Il tema, pur restando una parentesi negli interessi di Duverger, presenta ancora oggi un’occasione di riflessione, a dimostrazione della capacità dell’autore di essere, anche sul punto, precursore dei tempi: l’argomento infatti si imporrà ciclicamente all’attenzione tanto dell’opinione pubblica quanto della comunità scientifica.

La denuncia espressa nelle prime pagine dell’opera individua tra i principali ostacoli alla realizzazione del lavoro, oltre alle inevitabili «difficultés matérielles (absence de renseignements et de sources documentaires, insuffisance de chercheurs et de crédits, etc.), qui sont communes à la plupart des recherches de science politique», un’inaspettata resistenza da parte delle associazioni femminili, una difficoltà che uno stupefatto Duverger non esita a definire di carattere psico-sociale5.

Si trattava di una « réserve marquée au départ par certaines grandes associations féminines, attachées à la défense des droits de la femme et à leur mise en œuvre pratique. C’est ainsi qu’on a reproché à l’enquête de comporter une discrimination entre les sexes, par son objet même : étudier séparément l’attitude politique des femmes, n’est-ce pas supposer a priori qu’elle est différente de celle des hommes, et admettre inconsciemment l’existence d’une ‘nature féminine’ propre ? »6.

Duverger aveva suggerito di procedere in alcuni distretti, in tempo di elezione e in via sperimentale, a un conteggio dei voti separato per sesso, ricorrendo ad urne distinte per uomini e donne. Egli riteneva che solo in questo modo l’analisi statistica avrebbe rappresentato con fedeltà gli orientamenti politici delle donne. La proposta aveva incontrato la fiera opposizione da parte dell’universo maschile, adducendo a motivazione la violazione della segretezza del voto. Duverger respingeva con fermezza l’argomentazione (« évidemment sans valeur »7), sostenendo che il metodo suggerito rispecchiava né più né meno quello impiegato nei sondaggi.

Duverger, mostrando anche in questo caso ‘acutezza interpretativa’, denunciava come dietro il paravento di un’affermazione apparentemente egalitaria (le donne votano come gli uomini e quindi il loro voto non modifica sostanzialmente l’esito elettorale) si celasse in realtà la volontà di negare l’originalità e l’indipendenza di pensiero delle donne e l’incapacità del voto femminile di incidere sugli esiti elettorali e quindi sulle vicende politiche di un paese: un modo sub dolo per affermare di fatto l’inutilità del suffragio femminile.

Negli anni in cui Duverger presentava la sua relazione, alle donne italiane il diritto di voto era stato concesso da circa un decennio; un percorso accidentato e faticoso aveva accompagnato il riconoscimento dei diritti civili e politici alla componente femminile della nostra società.

Ed è a questi fenomeni (già noti per un’attenta ricostruzione compiuta in anni recenti, anche se più attraverso una lente socio-politologica che storico-giuridica) che è dedicato questo breve saggio. In particolare, la letteratura ha analizzato il fenomeno dal punto di vista delle donne (una letteratura di genere, quindi, o women’s studies, come si usa dire), per esaltarne il ruolo attivo nel processo di emancipazione ed evidenziare le rivendicazioni avanzate da movimenti femminili italiani all’interno del più vasto evento internazionale delle cd. suffragette.

Ma quale era la posizione dei politici italiani che nell’unica sede preposta a decidere il destino del riconoscimento del diritto di voto, ossia il Parlamento, dibattevano sul punto?
Donne viste dagli uomini: si intende così restituire uno spaccato di vita lungo sessant’anni in cui argomentazioni tecnico-giuridiche si intrecciano con suggestioni culturali, morali, di costume, ideologiche, partitiche dall’unità d’Italia fino alle soglie dell’ascesa del fascismo.

Sebbene l’Italia non rientri tra i paesi oggetto di analisi del rapporto, tuttavia Duverger non esita a rintracciare nel nostro paese (come in altri) le ragioni di questa sorta di apartheid esercitata verso le donne: la tenace convinzione della ‘naturale’ destinazione della donna alla dimensione privata e familiare, la mancata indipendenza economica e una mentalità definita ‘primitiva’ che saldava in una combinazione unica due facce di una medesima medaglia, ossia guerra e politica, considerate entrambe «une affaire d’hommes»8. Così la partecipazione delle donne « s’agit précisément d’un effort pour changer cette conception plutôt que de la conséquence d’un changement déjà réalisé »9.

Che accadde dunque in Italia?

Spentasi l’eco del secondo conflitto mondiale, si intraprese un processo di democratizzazione e di mutamenti istituzionali e politici (si pensi alla formazione e al ruolo dei partiti, analizzato proprio da Duverger nella sua ‘bibbia’ del 1951) che coinvolgevano anche i sistemi elettorali e l’estensione del diritto di voto alle donne.

Non è un caso, rileva Duverger, che in molti paesi la spinta ad un riconoscimento del ruolo delle donne anche nell’ambito politico sia avvenuta a seguito di un evento bellico, un fenomeno in grado di causare un totale sconvolgimento delle politiche generali da sovvertire ogni principio consolidato.

Il voto divenne una sorta di ricompensa per i compiti svolti e le funzioni assoltedalle donne durante le ostilità belliche, quando furono chiamate a sostituire gli uomini impegnati al fronte10. Nel frangente, esse dimostrarono le loro capacità organizzative, la concreta e fattiva collaborazione alle dinamiche della vita sociale, il contributo al processo economico11.

In particolare, in Italia, al termine della Grande Guerra, si giunse alla «sola grande legge riformatrice dell’età liberale»12, ossia all’agognata abolizione dell’autorizzazione maritale, un istituto che aveva attraversato l’intera esperienza codificatoria ottocentesca: si restituiva finalmente alle donne la libertà di agire, limitata con motivazioni che miravano a far apparire accettabile e a favore delle donne stesse quanto invece era solo espressione di una concezione verticistica e gerarchica della famiglia, lontana da ogni impostazione egualitaria.

L’altro importante risultato fu conseguito all’epilogo della seconda guerra mondiale. Anche in questo caso le donne avevano fornito un contributo significativo alla Resistenza, combattendo in prima linea.

Le conquiste civili e politiche delle donne passarono attraverso la loro carne e il loro sangue; le guerre avevano determinato il crollo degli impianti legislativi vigenti e di convinzioni consolidate, mutando la stessa identità sociale, quella che si era cercato faticosamente di costruire dall’Unità, spesso trascurando le esigenze del mondo femminile.

2. Non è roba per donne: la delusione del primo codice civile italiano

All’indomani dell’unificazione territoriale, era prioritario per il neonato Stato italiano raggiungere in tempi relativamente brevi l’unità legislativa, superando quel pluralismo normativo che ne aveva connotato per secoli la storia. Tra rinvii, progetti, alternanze governative, l’agognato traguardo fu raggiunto il 25 giugno 1865: vedeva la luce, destinato ad entrare in vigore il 1° gennaio dell’anno successivo, il primo codice civile unitario, noto anche con il nome di Giuseppe Pisanelli, che più di altri vi aveva impresso il proprio marchio.

La famiglia, nei suoi diversi profili relazionali, personali e patrimoniali, fu al centro di vivaci dibattiti: il processo di laicizzazione intrapreso dall’Italia liberale coinvolgeva l’istituto matrimoniale e la sua indissolubilità, così come il tentativo di modulare i rapporti parentali su un principio di uguaglianza invitava a riflettere sullo status dei figli naturali, sulla ricerca della paternità e sul ruolo della donna.

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, oggetto di animata discussione fu l’autorizzazione maritale13, perpetuata dai codici preunitari sul modello francese e che subì, nei diversi progetti, vicende alterne. Assente nel testo di Pisanelli del 1863 (il Guardasigilli in persona ne ricusò l’utilità14), essa fu ripristinata dalla commissione senatoria15 anche sotto la pressione del ministro Vacca, che, in risposta a quanti vi scorgevano una ‘moderna servitù’, la dichiarava un pegno della concordia familiare e dell’armonia tra i coniugi16.

In piena conformità a quanto disposto dall’art. 131, che riconosceva nel marito il capo della famiglia, il codice del 1865 contemplava la necessità dell’autorizzazione maritale per donare, alienare beni immobili, sottoporli a ipoteca, contrarre mutui o riscuotere capitali, transigere o stare in giudizio. La novità introdotta rispetto al passato riguardava la facoltà attribuita al marito di concedere un’autorizzazione preventiva per atto pubblico, generale o speciale, revocabile in qualsiasi momento (art. 134).

Una simile disposizione intendeva mitigare l’asperità della soluzione accolta, alla luce anche delle vivaci proteste delle donne, in particolare quelle lombardo-venete, le quali, dopo circa un cinquantennio di osservanza del codice austriaco, privo di qualunque vincolo al compimento di atti giuridici, si trovarono ricondotte a una condizione di sottomissione: inevitabile che l’unificazione legislativa rappresentasse ai loro occhi un arretramento.

La donna tornava a godere di una piena capacità d’agire in caso di separazione legale addebitabile al marito, o se svolgeva in autonomia la professione di commerciante o nel caso di marito minorenne, interdetto, assente, o condannato a più di un anno di carcere per il tempo di espiazione della pena (art. 135)17.

Quasi a dimostrazione di un parallelismo tra famiglia e Stato, sul sempre equivoco crinale tra dimensione privata e pubblica della famiglia stessa, nel caso di rifiuto del marito a prestare l’autorizzazione o di conflitto di interessi o di separazione pronunciata per colpa esclusiva della moglie o per concorso di colpa di entrambi i coniugi o per mutuo consenso, la donna necessitava dell’autorizzazione del tribunale civile, il quale, prima di concederla, aveva l’obbligo di sentire il marito, fatti salvi i casi di urgenza (art. 136)18.

Vari deputati avevano stigmatizzato la scelta codicistica, oggetto di un vivace contraddittorio nelle aule parlamentari. La previsione (o meno) dell’autorizzazione maritale veniva elevata a significativo indicatore di regresso o progresso civile, una sorta di biglietto da visita per uno Stato che si affacciava sullo scenario europeo.

L’onorevole anconetano Annibale Ninchi, vanto della sua città natale19, non esitava a definire la condizione della donna tratteggiata dal codice civile simile a uno stato di servitù di cui condivideva i pesanti oneri ma non i pur flebili vantaggi: mentre una ‘serva’ era esentata da ogni tipo di responsabilità (ricadente sul proprio padrone), su una moglie e una madre gravavano responsabilità morali «senza nessun diritto di governo e prerogative di direzione», né all’interno della società domestica né all’esterno20.

Alle severe censure mosse da Ninchi all’intero impianto e contenuto del codice rispondeva Oreste Regnoli che condivideva con il primo solo un punto: le rimostranze riguardanti la mortificante disciplina disposta per la donna maritata, frutto della «troppo rigorosa ispezione» svolta dal Senato sull’originario progetto e che aveva condotto a cancellare fatalmente i diritti delle donne maritate così come conosciuti in Lombardia. «Io ciò deploro perché questa era un’innovazione per le parti d’Italia, essa era un’innovazione necessaria, era una semplice e tarda giustizia resa alle donne; e giustizia tanto più opportuna in quanto che nella Lombardia e nel Veneto essa ha già fatto tali prove che non la si può più chiamare una innovazione pericolosa, una utopia, come suole troppo spesso dirsi delle nuove leggi»21. Articolata la dissertazione sul punto di Regnoli, che richiamava quasi principi giusnaturalistici nel definire la famiglia una società naturale (come sarà poi sancito dalla Costituzione italiana all’art. 29). A suo avviso, se, al pari di ogni società, anche la famiglia necessitava di “un capo”, ciò non poteva tradursi nella perdita da parte della donna coniugata di quei diritti di cui godeva nello stato di nubile o di vedova22.

L’introduzione dell’autorizzazione maritale comportava la rottura dell’eguaglianza «non nella parte sostanziale e morale del matrimonio, ma nella parte che riguarda il diritto di proprietà dei componenti del matrimonio stesso»23.

Ravvedeva nell’autorizzazione maritale una vera e propria umiliazione per la donna Francesco Crispi, il quale, pur nella necessità di preservare il patrimonio familiare da atti sconsiderati, soggiungeva che non si poteva obbligare la donna a restare in qualunque atto della vita sotto la potestà del marito. La disposizione dell’art. 134 rappresentava la riprova «che ancora non sentiamo la vera missione che ha sulla terra colei alla quale abbiam legato le nostre sorti e che non solo è nostra moglie, ma è la madre dei nostri figli»24.

Accorato il discorso di un navigato giurista e politico come Pasquale Stanislao Mancini, che pur mediando tra posizioni estreme25, non esitava a richiamare lo spirito di identità nazionale per abbattere i limiti introdotti: «Confesso, o signori, che arrossisco pensando alla ingiusta ricompensa che con questo nuovo Codice italiano noi porteremmo alle generose madri e spose lombarde, che tanto premurosamente operarono educando ed incitando la gioventù a forti opere pel trionfo della nazionale indipendenza, quasi costringendole a rimpiangere come più liberale la legislazione dello straniero dominatore, se il sentimento dell’amor di patria non avesse virtù solo e senza contrasto di scaldare quei nobili petti!»26.

I tenaci oppositori dell’autorizzazione maritale invocavano quindi l’estraneità dell’istituto alla tradizione giuridica italiana: assente nel diritto romano, lo si dichiarava introdotto dal codice napoleonico e da qui trasmigrato nei codici preunitari. I progetti succedutisi vorticosamente da Cassinis in poi si erano modulati sulla falsariga del diritto austriaco, fatta eccezione per il secondo progetto Cassinis: né Miglietti, né Conforti, né Pisanelli avevano avvertito la necessità della sua previsione. Sembrava quindi inspiegabile il colpo di mano della commissione senatoria, che con questa scelta ripudiava le radici storiche del diritto italiano (ossia il diritto romano) per abbracciare l’esperienza straniera. Era avvertito come inopportuno questo sussulto di esterofilia in un momento in cui l’Italia era chiamata a recuperare il senso di sé e della propria unità dopo secoli di smembramento politico-territoriale27.

L’esempio della Lombardia e del Veneto era il vessillo della campagna del patriota milanese Francesco Restelli il quale, proprio richiamando i buoni risultati conseguiti nelle province italiane in cui vigeva il codice austriaco28, riteneva «esagerato e mal fondato» il timore che la mancata previsione dell’autorizzazione maritale potesse compromettere l’ordine familiare29. Secondo Restelli, al contrario, accordandole fiducia la donna avrebbe ripagato in termini di amministrazione responsabile l’affidamento e l’aspettativa riposta in lei, con conseguente vantaggio per l’unità familiare e patrimoniale30.

Testimonianza diretta del mancato avverarsi delle sciagure profetizzate dalle cassandre del diritto nei territori esenti dall’autorizzazione maritale proveniva dal nobile avvocato vicentino Sebastiano Tecchio, il quale dichiarava di aver potuto constatare in prima persona che nella pratica «da codesta libertà raro è che nascano inconvenienti o disordini» e che comunque eventuali abusi «tornano minori a pezza, e meno pregiudizievoli alla pace delle famiglie, che non quelli i quali si manifestano nei paesi dove la donna è vincolata cosi come oggi la si vorrebbe vincolare»31. L’art. 134, a detta di Tecchio, finiva per porre la donna in una condizione di dipendenza dal marito paragonabile a quella di chi per uno stato naturale o civile di interdizione necessitava di un curatore o di consulente giudiziario. «Domando se questa condizione possa essere reputata consentanea alla dignità della donna; o se una moglie, la quale dalla legge sia posta in siffatta condizione, possa avere nel seno della famiglia quella legittima influenza alla quale l’istituzione stessa del matrimonio, e la voce della natura e della civiltà, ci assicurano ch’essa ha diritto»32.

E su questa linea si poneva anche un deputato della destra, come Giuseppe Massari33, il quale, concordando con un compagno di ideali come Ninchi, non a caso rievocato nel suo discorso, confessava che «il veder trattata la donna a quel modo mi ha fatto molto dispiacere. Sono stato ferito nei miei sentimenti più delicati». Suscitando l’ilarità dei presenti grazie a una sottile ironia, Massari confessava che «da uomini così miti e d’animo affettuoso come l’onorevole guardasigilli e l’onorevole relatore Pisanelli non mi aspettavo ciò. Dico schietto, signori, l’avrei compreso se l’uno e l’altro fossero ammogliati, perché l’esercizio dell’autorità coniugale, come l’esercizio di tutte le autorità di questo mondo, crea spesso la tendenza ad esagerare le proprie attribuzioni: ma dall’onorevole guardasigilli e dall’onorevole Pisanelli non me l’aspettava, ché essi, come me, appartengono alla sconsolata famiglia dei celibi»34.

Nonostante le opposizioni e gli auspici di alcuni autorevoli giuristi, finì per imporsi la linea della commissione senatoria35, ritenuta espressione di una condivisibile prudenza che imponeva di non turbare l’unità e l’armonia familiare36.

Al di là della specifica ipotesi dell’autorizzazione maritale, il codice era costellato di disposizioni che riflettevano una visione discriminatoria della donna. Tra i casi di separazione era contemplato l’adulterio, declinato tuttavia in modo diverso nel caso che a violare la fedeltà coniugale (sancita come un dovere paritario per i due sposi dall’art. 130) fosse l’uomo o la donna. Se al marito bastava il semplice tradimento per intentare causa di separazione, alla donna occorreva dimostrare l’esistenza di un rapporto di concubinato tanto forte da indurre l’uomo a mantenere la concubina in casa o notoriamente in altro luogo (art. 150).

Sebbene si introducesse l’idea di una potestà genitoriale congiunta, era di fatto il padre ad esercitarla, e tale preminenza decisionale durava oltre la sua stessa vita: egli poteva infatti vincolare il coniuge superstite dettando le modalità educative dei figli e disponendo circa l’amministrazione dei beni degli stessi da parte della madre (art. 235).

Era altresì possibile al consiglio di famiglia (chiamato a intervenire ex art. 241 qualora il minore non fosse soggetto alla patria potestà o a tutela legale, in seguito a morte di entrambi i genitori, o a dichiarazione di assenza o perdita della patria potestà per effetto di una condanna penale) decidere, nell’ipotesi in cui la vedova volesse contrarre nuove nozze, se essa potesse conservare l’amministrazione dei beni dei figli minori di primo letto oltre astabilire le condizionirelative alla loro formazione.

Si trattava di disposizioni particolarmente gravi, dal momento che il minore era sufficientemente garantito dal controllo del tribunale sugli atti di straordinaria amministrazione e dalla perdita dell’usufrutto legale per il genitore passato a seconde nozze. Norme che manifestavano evidente sfiducia verso la donna, considerata non solo inadeguata a prendersi cura del patrimonio della prole, ma incapace di svolgere un ruolo educativo in autonomia.

A lei si vietava inoltre di assumere l’ufficio di tutela, pro tutela e curatela e di far parte del consiglio di famiglia, a meno che non fosse ascendente o sorella germana non maritata dell’incapace (art. 268, n. 1, cc.).

In sintesi, la scelta matrimoniale finiva per rappresentare, anziché un’opportunità di crescita in un rapporto di condivisione dei sentimenti fra eguali, una forte limitazione delle capacità delle donne. Paradossalmente, era nella vita priva di legami familiari che la donna sperimentava una forma di libertà, costretta quasi a scegliere tra l’esaltazione di un ‘io’ o la dimensione di un ‘noi’ in cui ritagliarsi un ruolo non solo di secondo piano, ma anche di subalternità. La solitudine, derivante o dal nubilato o da una separazione o dalla vedovanza, era l’unica possibilità per le donne di esprimere, almeno sul piano giuridico, la propria volontà e affermare le proprie decisioni37.

Un primo mutamento a questa condizione di marginalità fu dovuto a un evento catastrofico: il terremoto calabro-siculo del 28 dicembre 1908, che indusse il governo ad introdurre provvedimenti eccezionali quali, ad esempio, il R.D. del 14 gennaio 1909, n. 14. L’art. 4 autorizzava la donna ad esercitare le funzioni tutelari su minorenni rimasti abbandonati, senza limitazioni di vincoli di parentela e senza bisogno di autorizzazione (e così disporrà successivamente anche l’art. 23 della l. 18 luglio 1917, n. 1143 per gli orfani di guerra).

Il 17 luglio 1919 finalmente il muro dell’autorizzazione maritale venne sgretolato: la legge, dal significativo titolo Norme circa la capacità giuridica della donna, abrogava all’art. 1 gli artt. 134-137 del codice civile, lasciando tuttavia impregiudicato il tema dei diritti politici38.

Cadeva così definitivamente il divieto per le donne di assumere uffici tutelari e di far parte del consiglio di famiglia. Al contrario, l’art. 4 le qualificava espressamente come consulenti di diritto, qualora non fossero parte del consiglio di famiglia in altra qualità.

Se l’art. 7 ammetteva le donne, a pari titolo degli uomini, all’esercizio di tutte le professioni e a coprire gli impieghi pubblici, con l’importante eccezione tuttavia di quelli implicanti poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e potestà politiche o attinenti alla difesa militare dello Stato, il legislatore (latore tutto sommato del parere della scienza giuridica) rimaneva fermo nella propria posizione per quanto riguardava il diritto di voto: se nella sfera privata e familiare i principi di libertà e uguaglianza consentivano la realizzazione di un’armonia avvertita ormai come necessaria (superando la contrapposizione tra un marito-padrone e una moglie-serva), nell’ambito pubblico prevaleva ancora la diffidenza verso quel sesso presunto frivolo nelle cui mani non poteva essere lasciato il destino dello Stato e dei pubblici interessi.

Sfumava così il miraggio dei movimenti femminili che avevano cercato di attribuire alle donne veri spazi di autonomia, non limitandoli alla libertà di contrarre o non contrarre matrimonio, ma di incidere nella vita civile e politica del Paese attraverso l’espressione del voto elettorale.

3. L’illusoria stagione dei progetti

Se l’eco dell’ingiustizia dell’autorizzazione maritale non si era spenta dopo l’entrata in vigore del codice, quello sul voto divenne un tema centrale.

La lotta per la conquista dei diritti elettorali si svolse in realtà nell’Italia liberale lungo due direttrici: la rivendicazione del voto politico e di quello amministrativo. Il primo «non fece mai realmente parte dell’orizzonte delle possibilità; il voto amministrativo ne ebbe invece molte, anche se non arrivò mai in porto. La distinzione tra i due tipi di suffragio era legata da un lato alla concezione europea di ancien régime in cui le donne erano presenti nelle forme di rappresentanza locale legate agli interessi patrimoniali, e dall’altro alla concezione liberale italiana per cui i poteri degli enti locali non dovevano rivestire alcun significato politico»39.

Sulla base di tali premesse, il voto amministrativo avrebbe dovuto incontrare meno ostacoli, dal momento che le donne più facilmente potevano essere considerate elettrici in ragione del loro essere contribuenti: ma, proprio «perché questa era una possibilità reale, la si temeva di più»40.

Entrambe le istanze, come vedremo, naufragarono miseramente nel conservatorismo del tempo.

La rivendicazione per l’attribuzione del voto amministrativo aveva radici lontane: risaliva infatti al periodo immediatamente successivo all’unificazione41. Nel 1861 un gruppo di donne lombarde, con l’orgogliosa qualifica di cittadine italiane, presentava alla Camera una petizione42. In realtà si trattava della richiesta di estendere a tutte le donne la normativa asburgica operante sui territori lombardo-veneto e toscano, ossia prevedere l’esercizio del voto alle sole donne contribuenti e tramite procura, onde evitare «il contatto fisico tra il corpo femminile e il luogo pubblico maschile: timore simbolico che ricorrerà in tutte le discussioni successive sul diritto di voto femminile»43.

In fondo, su presupposti simili, si erigeva il progetto di legge comunale e provinciale presentato dal ministro Marco Minghetti il 13 marzo 1861. L’art. 13 concedeva infatti alle donne proprietarie (la cui contribuzione non fosse imputata a un marito) di delegare la rappresentanza del loro censo in sede elettorale44: delega, quindi, non diretta espressione di voto, dal momento che l’art. 17, per evitare ogni equivoco, stabiliva l’esclusione delle donne dall’elettorato tanto attivo quanto passivo45, con una formulazione e un accostamento a categorie di soggetti che riproduceva quanto già vigente con il decreto Rattazzi (art. 23) e poi ripreso dalla legge elettorale del 186546.

Ritirato il progetto nel 1862, sembrava destinata a miglior fortuna la proposta avanzata dall’allora ministro dell’interno Ubaldino Peruzzi (nel dicastero Minghetti) nella tornata del 29 maggio 1863. Si trattava di un ambizioso tentativo di riformare la normativa del 1859; in particolare, per quanto attiene al nostro tema, il progetto interveniva sull’art. 45 della legge del 1859, per il quale il voto era personale e non ammetteva rappresentanze o votazioni per iscritto. Peruzzi sul punto si rifaceva alla legge comunale toscana del 1859, con un’unica variante: mentre in Toscana il voto per rappresentanza era consentito a tutti, tranne che alle donne, le quali lo esprimevano solo mediante scheda, la proposta ministeriale del 1863 consentiva alle elettrici, purché maggiori di 21 anni, nubili, vedove, separate e contribuenti, di votare un proprio rappresentante per delega o per iscritto. Evidente che si volesse concedere la partecipazione politica alle sole donne ‘libere’, ossia non soggette al potere di un padre o di un marito, e per questo chiamate a tutelare in prima persona i propri interessi senza il paravento di una protezione maschile.

La Commissione incaricata di esprimere un parere, attraverso la voce del relatore Carlo Boncompagni, riteneva ammissibile il diritto di voto delle donne esclusivamente nelle elezioni comunali47, con la precisazione che «i nostri costumi non consentirebbero alla donna di frammettersi nel comizio degli elettori per recare il suo voto». Erano perciò necessari degli accorgimenti per evitare che ella fosse eccessivamente soggetta all’ascendente altrui: concetto ribadito nel tempo con costante convinzione. Si riteneva che «il fine a cui la legge intende sarà assai meglio raggiunto, a parere della Commissione, quando alla donna si prescrive di mandare il voto scritto in scheda» e non tramite delegati, i quali avrebbero potuto esercitare un’indebita influenza sul delegante48.

Fu la Commissione parlamentare, relatore Francesco Restelli, in accordo con il ministro dell’interno Giovanni Lanza49, esponente di spicco della Destra storica, a porre una pietra tombale sull’iniziativa di Peruzzi, sottolineando il valore della presenza personale al voto (come era nella legge del 1859) e respingendo la previsione di un voto per scheda o per delega, non sufficientemente garante della sincerità e della libertà del voto. In forza dell’antico adagio che considerava inopportuna la presenza diretta delle donne ai seggi si bocciò in toto la ventilata apertura e si giunse così all’approvazione del testo del 186550.

In un tourbillon di progetti51, su uno sfondo politico che, pur mutando, manteneva ferma l’opposizione al suffragio femminile52, con argomentazioni che i diversi schieramenti politici faticavano a differenziare (destra e sinistra sembravano concordi nel parlare un medesimo linguaggio escludente), merita di essere segnalato l’intervento radicale del pugliese Salvatore Morelli che nel suo schema legislativo presentato il 18 giugno 1867 (ma mai ammesso alla lettura) esordiva affermando: «Signori, io vi metto dinanzi un dilemma: la donna la ritenete per cosa o per persona? Riconoscete o negate in lei la facoltà tutte che possiede l’uomo? Ammettete o negate in lei la identità del tipo? Ammettete o negate in lei una medesima destinazione con l’uomo? Se riconoscete la donna per persona, se ammettete in lei le stesse facoltà che possiede l’uomo, se riconoscete in lei l’identità del tipo rivestito del prestigio della genitura, che la rende più maestosa e solenne, se ammettete nello svolgimento delle sue facoltà, come vi comanda il buon senso, la ragione e la storia, comune destinazione con l’uomo, quale argomento potrebbe affacciarsi per negare alla creatrice dei cittadini, la giuridica caratteristica di cittadino? Alla madre degli elettori, dei deputati, dei ministri il diritto di portare il voto all’urna, e di esercitare le altre prerogative politiche concesse all’uomo suo compagno?»53.

La sua proposta, secca ed estrema, mirava con soli quattro articoli a rivoluzionare la condizione femminile: l’art. 1 proclamava che era volere della giustizia eguagliare la donna all’uomo «nei diritti civili e politici. Quindi le donne italiane, dalla pubblicazione di questa legge, sono facultate ad esercitare i diritti civili e politici nello stesso modo e con le medesime condizioni che li esercitano gli altri cittadini del regno d’Italia». Ne derivava inevitabilmente l’abrogazione di tutte le disposizioni del codice e di altre leggi suppletorie che circoscrivevano e limitavano i diritti della donna. Si profilava la precoce configurazione d’un suffragio universale, comprensivo anche del voto femminile54.

Nemmeno l’ascesa al governo della sinistra modificò lo stallo creatosi con gli improduttivi tentativi messi in campo dai governi della Destra storica: alla frenesia progettuale continuava a fare da contraltare un immobilismo decisionale.

Fu quando nel 1881 approdò alla Camera la discussione sul disegno di legge per la riforma elettorale presentata dall’allora ministro dell’Interno Agostino Depretis che la discussione si infiammò.

In questo caso il tema della partecipazione delle donne al voto politico (non più solo amministrativo, quindi) si intrecciò con una vivace discussione sul sistema elettorale da adottare: per censo, per classi, a suffragio universale maschile graduato55 (con posizioni diverse riguardo ai requisiti da richiedere), a suffragio universale comprensivo anche delle donne.

Toccò a Giuseppe Zanardelli farsi carico della relazione illustrativa dei lavori svolti dalla Commissione. E Zanardelli mostrò un volto inaspettato. Inizialmente egli accendeva una fiammella di speranza, ammettendo un’uguaglianza intellettiva tra uomini e donne, concedendo che un «grandissimo numero di donne ha una intelligenza per lo meno più che sufficiente per dare un voto con consapevolezza e discernimento» e soggiungendo che «a capacità uguali, se non superiori, può sembrare debbano incontrastabilmente corrispondere uguali diritti». Seguiva, però, un coupe de théâtre: la premessa, che lasciava presagire una soluzione positiva, si risolveva in affermazioni degne del più implacabile ‘codino’. La solutio, situata al termine di una dialettica contrapposizione tra pro e contra, faceva crollare ogni attesa. «Malgrado l’apparente efficacia di tali argomenti, non è senza profonda ragione che presso nessun popolo, o quasi, come si è veduto, questa compartecipazione alla vita politica si è assegnata alla donna» e questo perché «l’uomo e la donna non sono chiamati allo stesso ufficio sociale, agli stessi diritti e doveri, agli stessi lavori, alle stesse cure e fatiche. La donna è diversa dall’uomo; essa non è chiamata agli stessi uffici, non è chiamata alla vita pubblica militante; il suo posto è la famiglia, la sua vita è domestica, le sue caratteristiche sono gli affetti del cuore che non si convengono coi doveri della vita civile; la sua missione è di formare i cittadini patriotti, liberali; ed il domi mansit lanam fecit, deve essere il motto più onorevole del suo programma; la forza della donna non è nei comizi, ma nell’impero del cuore e del sentimento sul freddo calcolo e sulla ragione crudele».

Erano dunque le nobilissime doti femminili a ripugnare alla partecipazione alla vita pubblica, ufficio cui ella non era chiamata dalla natura.

La relazione inanellava così tante perle di luoghi comuni da far sembrare impossibile una tale concentrazione in un solo discorso: «nella sua missione tutta d’educazione e di affetti, a gioia, conforto ed altissimo incitamento dell’uomo nella vita domestica ed intima, la donna sarebbe spostata, snaturata, involgendosi nelle faccende e nelle gare politiche […]. E’ suo dovere invece, suo ufficio, ed insieme suo voto e suo bisogno dedicarsi alla assidua cura della famiglia». Fino alla stoccata finale: «la maggior parte delle donne non aspira a che si conferisca loro un diritto, il quale in tal caso sarebbe in pari tempo un dovere, e le costringerebbe ad assumere la parte insopportabile della donna politica, a scendere ad occupazioni e disquisizioni e negozi che sarebbero mortale fastidio per la loro tempra delicata e gentile; mentre la parte nobilissima della donna nella politica è quella di formare i caratteri, di ispirare l’amore di patria, l’altezza dei sentimenti, di sorreggere e fortificare nell’esercizio delle pubbliche virtù, di indirizzare le menti e gli animi ai fulgidi ideali verso cui volgesi e dei quali innamorasi più facilmente il suo pensiero. Perciò, come dicevo, la maggior parte delle donne ricuserebbe il dono sgradito»56.

Asserzioni difficili da sostenere in un contesto in cui le donne si stavano mobilitando per ottenere finalmente quello che molti uomini volevano, ostinatamente e con una sorta di miopia sociale, negare.

Per giorni il Parlamento fu attraversato da ‘discorsi alti’ sul sistema elettorale, sul decadente ruolo dei partiti, sulla mancanza di riconoscibilità ideologica tra Destra e Sinistra, sul timore di un’ingerenza della Chiesa nei processi elettorali, soprattutto nelle realtà rurali e sulle donne, sul coinvolgimento degli analfabeti.

Fu il conte liberal-democratico Saladino Saladini a riportare alla luce il problema del suffragio femminile, con un’onesta constatazione: «prima di tutto noi non dovremmo poterle [le donne, n.d.r.] escludere, perché siamo in questa questione giudice e parte. Sarebbe giusto il giudizio allorquando vi prendessero parte anch’esse». Ribattendo duramente a Zanardelli, egli asseriva: «provatemi che il voto tolga la donna alle cure della famiglia. Vi sono ben altri usi e costumi che distraggono la donna dalle cure domestiche; il voto la richiamerebbe un po’ da certe frivole occupazioni improduttive ed onerose per la famiglia. La donna suol pigliare tutte le cose più sul serio di noi, con maggiore impegno, e annetterebbe a questa missione sociale la più coscienziosa importanza. Il voto farà la donna più educatrice; e come volete che essa possa formarci cittadini, come voi dite, patriotti e liberali, finche questa patria e questa libertà non gliela facciamo sentire, accostare, comprendere? Se in essa prevale il cuore, come dice l’onorevole Zanardelli ma non sarà meglio? Non vi pare un assurdo che il sesso che non impedisce di regnare, debba poi impedire di votare?».

A chiusura dell’intervento non mancava un accenno di leggera ironia: «si accennò anche nella relazione che resterebbe offesa la grazia naturale delle donne, e che esse potrebbero perderne qualche parte entrando a far parte del corpo elettorale. Ma no, non dubitate; esse sapranno votare con tutta la grazia; la loro arma nella lotta elettorale sarà il sorriso»57.

Il 3 maggio l’avvocato milanese Giuseppe Marcora, esponente dell’estrema sinistra, tenace sostenitore del suffragio universale quale strumento di avvicinamento della realtà politica al mondo reale, includeva in quell’universalità le donne, non risparmiando una feroce stoccata a Zanardelli, reo, a suo dire, di aver presentato nella relazione un proprio ideale di donna, «ma, me lo perdoni l’onorevole amico Zanardelli, egli ha voluto provare troppo e ha provato nulla»58.

I due interventi a favore di un suffragio universalissimo ottennero la risposta sarcastica di Depretis, il quale, sconfessando uno dei punti di forza della sua campagna elettorale (nel programma presentato a Stradella nel 1875), sottolineava che «essi soli [scil. Marcora e Saladini], certo con molta eloquenza e con profonda convinzione, hanno sostenuto questo argomento nella Camera. Ma essi soli! Due! E temo che siano anche quasi soli a votarlo. E fuori della Camera i sostenitori di questa tesi sono in numero anche infinitamente minore»59.

Per queste ragioni, alla fine il Ministro rimandava a un «lontano avvenire» il superamento di «queste colonne d’Ercole», in un paese che non era pronto ad accogliere una riforma che, a suo dire, non avrebbe avuto il voto favorevole nemmeno «se la stessa più bella metà dell’umana famiglia fosse direttamente consultata», dal momento che la donna aveva la piena consapevolezza di disporre di «tanti altri mezzi d’influenza, di azione, assai più potenti del voto!»: una sprezzante battuta sessista che non mancò di suscitare l’ilarità dei presenti60.

La discussione continuò anche dopo le dimissioni del governo Cairoli e il ritorno alla presidenza del Consiglio dello stesso Depretis, che, sempre nel 1881, rimise al centro del dibattito la legge elettorale, nelle convinzione che il processo democratico di una nazione passasse inevitabilmente da una simile riforma61.

Lo scontro tra fautori e avversari del voto alle donne proseguì con argomentazioni che rischiavano di risultare stantie, tra chi riteneva che, se si fosse adottato il parametro del grado di istruzione62, le donne non avrebbero potuto esser escluse dall’elettorato63; e chi ripeteva il refrain dell’incompatibilità con il voto della missione pedagogica, dalla quale le donne non andavano distolte: argomentazione cui si eccepiva che un evento così raro come quello elettorale, di solito esercitato ogni quattro o cinque anni, non le avrebbe certo distratte dalle cure familiari64. Inoltre, proprio perché chiamata a formare i futuri cittadini, instillando in loro l’amor di patria e le virtù civili, la donna per prima doveva essere educata a divenire ‘animale politico’ per poter poi impartire tali insegnamenti ai propri figli65.

Zanardelli, divenuto nel frattempo ministro di grazia e giustizia, riassumendo le diverse posizioni espresse sui criteri elettorali66, cosí liquidava la questione: «Vedendo che per il voto muliebre non sono stati proposti emendamenti, di tale questione non mi occuperò»67.

In realtà il 14 giugno 1881 l’on. Nicolò Fabris (con esperienza di sindaco in un piccolo comune udinese) propose un emendamento, richiedendo espressamente per le donne non solo il compimento del venticinquesimo anno di età (condizione non da tutti condivisa, dal momento che alcuni volevano abbassare il limite di età per tutti a 21 anni e altri addirittura a 18), ma anche il possesso della qualifica di maestra (patente o abilitazione) e l’aver conseguito un grado accademico o altro equivalente in una delle università o degli istituti superiori del regno68.

Il presidente del consiglio Depretis, presa la parola, criticò aspramente l’emendamento Fabris69, che messo ai voti venne respinto dalla Camera70, dopo che Coppino, relatore per la commissione elaboratrice del progetto di legge, pur riconoscendo l’uguaglianza tra uomini e donne, rinviava «ad altri e ad altro tempo il vedere quali e quanti diritti politici possano essere conferiti alla parte più gentile», ossia a quegli «esseri destinati a formare un’unità nel seno della famiglia»71.

L’autorevolezza di Depretis e il suo ruolo istituzionale ebbero la meglio: dopo un tormentato percorso, illuminato tuttavia da un confronto parlamentare dai toni a volte aspri, ma sempre elevati, nel maggio 1882 la legge elettorale politica venne varata, escludendo tanto il suffragio universale, invocato da radicali, socialisti e repubblicani e anche dall’ala cattolica che confidava nel voto ‘ecclesiasticamente’ orientato delle campagne, quanto quello universalissimo, ossia comprendente le donne72.

Escluse dal voto politico73, le donne tornarono al centro dell’attenzione in occasione del dibattito per la riforma della legge comunale e provinciale. In una sorta di déjà vu fu anche in questo caso il ‘peso’ del presidente del Consiglio (nonché ministro dell’Interno con l’interim degli Esteri), Francesco Crispi, a orientare la soluzione finale74.

Nonostante il progetto presentato non prevedesse il voto femminile, non mancarono anche questa volta alcune voci, levatesi soprattutto dalla sinistra, a spezzare un opaco silenzio.

L’avvocato milanese Giuseppe Marcora (futuro presidente della Camera)75, Ubaldino Peruzzi76, il giornalista siciliano di estrema sinistra Edoardo Pantano77, lo scultore Ettore Ferrari78, feroce oppositore della politica crispina, l’amministrativista senese Odoardo Luchini79, esponente della Destra, il pisano Giuseppe Toscanelli80, fervente patriota risorgimentale, che dopo aver militato nelle fila della Destra storica era passato nel 1876 nella sinistra di Depretis81, intervennero in diverse occasioni in difesa dei diritti delle donne, ma invano.

Crispi fu inflessibile: non recedette dalla propria posizione di contrarietà, basata, di nuovo, sull’idea di una donna «sensibile ed impressionabile». Egli appariva incapace di agire a mente serena nella gestione della res publica e, spinto da un acceso anticlericalismo, vedeva nell’elettorato femminile un docile strumento nella mani della Chiesa. «Amante ed amica, la donna è un conforto, e per noi, quando dalla lotta politica, dai contrasti dell’Aula parlamentare, ritorniamo nelle nostre famiglie, per avere pace e tranquillità, per assicurarci quella calma, che ci fu turbata in tutto il giorno, per trovare quel riposo al quale abbiamo diritto, sarebbe una grande sventura, o signori, che ricominciassero, entrando in casa, i contrasti e le lotte»82.

La discussione proseguiva tra il desiderio dell’esecutivo di chiudere al più presto il dibattito e irruenti e passionali discorsi vòlti a riportare sulla scena gli emendamenti favorevoli al voto femminile83.

La linea riformista fu sconfitta; quella del governo trionfò. Fu così che il 30 dicembre 1888 veniva emanata la legge elettorale, trasfusa poi nel testo unico della legge comunale e provinciale approvato con regio decreto del 10 febbraio 1889, dove all’art. 30, tra le categorie dei soggetti non elettori né eleggibili, comparivano nuovamente anche le donne, in una formulazione divenuta rituale. Non si era trovato il coraggio di rompere schemi ormai cristallizzatisi.

4. Dieci elettrici per dieci mesi: la svolta mancata

Qualche speranza si accese a seguito di un’intricata vicenda politico-giudiziaria che aveva al centro l’interpretazione dell’art. 24 dello Statuto albertino, collocato in apertura della parte dedicata ai diritti e doveri dei cittadini. Vi si leggeva che «tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi». Si apriva dunque qualche spiraglio per fondare sul generico termine ‘regnicoli’ il diritto di voto delle donne, non esplicitamente escluse dalla locuzione84. Anche la legge elettorale politica del 28 marzo 1895, dove, ancora una volta, i requisiti richiesti erano imputati ad un indistinto ‘elettore’, sembrava non prevedere un trattamento differenziato in ragione del genere85.

Forti di questa vaghezza normativa, nel 1906, alcune donne chiesero di essere iscritte nelle liste elettorali86 e non si arrestarono neppure di fronte ai rifiuti delle commissioni elettorali comunali, contro le cui decisioni proposero ricorso presso le commissioni provinciali87. Molte di queste accolsero i loro reclami, iscrivendo di fatto le ricorrenti nelle liste elettorali politiche.

L’apparente vittoria si trasformò in cocente delusione quando furono le magistrature ordinarie a prendere posizione sulla questione. La soluzione giudiziaria, fondata su un’interpretazione più o meno letterale del dettato statutario e del testo unico in materia elettorale, dimostrò l’evidente chiusura delle diverse Corti d’appello investite del tema88. Unica voce fuori dal coro fu, come noto, una pronuncia anconetana89 stilata da Lodovico Mortara, il quale, pur se personalmente contrario al suffragio femminile90, svolse, nella veste di tecnico, un sottile ragionamento giuridico.

La Corte di secondo grado di Ancona era stata investita della questione dopo che il procuratore del re presso il tribunale aveva appellato la decisione della commissione elettorale provinciale della medesima città, la quale aveva accolto l’istanza di dieci donne91. La commissione aveva ritenuto che esse possedessero i requisiti legali richiesti: godevano infatti per nascita dei diritti civili e politici del regno; avevano compiuto il ventunesimo anno di età; sapevano leggere e scrivere ed erano munite della patente di maestra elementare92.

Il procuratore, al contrario, sosteneva che esse mancassero del godimento dei diritti politici di cui al n. 1 dell’art. 1 del t.u. 28 marzo 1895 e che dalle disposizioni della stessa legge e dall’intenzione del legislatore si deducesse l’incapacità all’esercizio del diritto elettorale da parte delle donne93.

Mortara, invocando meri criteri esegetici, «senza divagare a discussioni teoriche pertinenti alla scienza e all’ufficio del legislatore»94, sosteneva che l’art. 24 dello Statuto ricomprendesse chiaramente nella dicitura regnicoli i cittadini di entrambi i sessi, rafforzando tale convinzione con quanto disposto dal successivo art. 25 nel quale si sanciva che essi (cioè tutti i regnicoli) contribuivano indistintamente nella proporzione dei loro averi ai carichi dello Stato «e nessuno ha dubitato mai che le donne siano contribuenti in proporzione dei loro averi al pari degli uomini»95.

Il richiamo allo Statuto e una soluzione fondata anche sulla lettura del combinato disposto degli artt. 24-25 rivelavano l’intento di argomentare da un lato la superiorità del dettato costituzionale rispetto ad ogni altra fonte e dall’altro di rintracciare proprio nello Statuto quel principio di uguaglianza formale e sostanziale sul quale legittimare il riconoscimento del diritto di voto senza discriminazioni di sorta.

Risultava particolarmente sottile il ragionamento svolto intorno al significato da attribuire ai cd. diritti politici, che Mortara considerava espressione dei diritti fondamentali, al pari della libertà individuale, dell’inviolabilità del domicilio, della libertà di manifestare le proprie opinioni, del diritto di riunirsi pacificamente, garantiti dagli artt. 26-28 e 32 dello Statuto ad ogni suddito del Regno. Come quelli, dunque, anche i diritti politici erano propri di entrambi i sessi96.

Nemmeno la riserva dell’art. 24 («salve le eccezioni determinate dalle leggi») poteva ritenersi riferita alle donne, dato che le eccezioni, a parere dell’estensore e secondo le regole della buona ermeneutica, necessitavano di espressa previsione e non potevano essere dedotte dal silenzio della legge97. Per di più, quando il legislatore aveva voluto escludere le donne dal diritto elettorale lo aveva espressamente previsto, come era accaduto con l’art. 26 della legge comunale e provinciale del 20 marzo del 1865, riprodotto nell’art. 22 del testo unico 4 maggio 1898 n. 16498.

Ancora più significativo, da un punto di vista metodologico, il rifiuto di considerare l’intenzione del legislatore ricavabile dai lavori preparatori, considerati da Mortara un sussidio esegetico ma non una fonte diretta. Per l’insigne giurista mantovano l’intenzione del legislatore andava reperita nel testo di legge e non al di fuori di esso, tanto più che ogni eventuale dubbio doveva essere risolto nel senso di un ampliamento della sfera della libertà muliebre, trattandosi appunto di determinare l’estensione di un diritto politico che avrebbe potuto ritenersi addirittura di diritto naturale: sotto questo profilo nessuno poteva contestare appartenesse a tutti99.

Si trattava dunque del tentativo di affermare per via giudiziaria il diritto politico come diritto fondamentale dell’essere umano, cercando, attraverso un’interpretazione estensiva, di superare l’ambiguità legislativa100 e di risolvere quello che Ignazio Brunelli riteneva essere «il problema della giusta applicazione del principio di sovranità popolare», nella convinzione che quello presente nell’ordinamento italiano fosse un suffragio mutilo, in ragione dell’esclusione delle donne101.

Tuttavia, l’illuminata pronuncia fu spazzata via dalla Corte di Cassazione di Roma102. Questa, forse anche sulla scia delle feroci critiche di insigni giuristi che si avvalsero dei principali mezzi di stampa per farsi prepotentemente sentire (superando gli angusti steccati delle riviste specialistiche)103, respinse la lettura dell’art. 24 offerta dalla Corte d’appello di Ancona, sostenendo la distinzione fra diritti politici determinati dal solo fatto della cittadinanza (come i richiamati esempi della libertà individuale, inviolabilità del domicilio, etc.) ed altri, come il diritto elettorale, che non avevano ricevuto la ragione delle loro esistenza dalla dichiarazione statutaria ma da altre leggi emanate posteriormente.

Ribaltando l’impostazione della sentenza d’appello, la Cassazione asseriva in modo perentorio che le leggi riguardanti l’elettorato amministrativo avevano sempre escluso la donna dal voto senza che ciò avesse mai sollevato dubbi di costituzionalità: ciò dimostrava che esse non avevano mai violato un diritto riconosciuto alle donne dallo Statuto.

Da un punto di vista squisitamente tecnico-giuridico rilevava inoltre, secondo i giudici supremi, il fatto che le «eccezioni determinate dalla legge» ex art. 24 erano non solo quelle formulate espressamente in qualche disposto normativo (come sosteneva Mortara), ma anche quelle ricavabili dalle regole fondamentali e dallo spirito informatore di tutta la legislazione in materia di diritto pubblico.

La prospettiva di Mortara era completamente capovolta: dal silenzio includente (proposto dall’interpretazione della corte di Ancona) si era passati ad un silenzio escludente affermato dalla Cassazione romana, per la quale l’elettorato alle donne era da intendersi come una deroga al principio generale dominante l’ambito pubblico e per questo necessitante di un’espressa formale disposizione riconoscitiva, che dichiarasse altresì modi e condizioni di esercizio.

Significativo il monito conclusivo, sintomo quasi di un timore degli effetti devastanti che sarebbero scaturiti da una ‘rottura’ della tacita accettazione dell’esenzione delle donne dalla vita pubblica: «ove dovesse ammettersi il diritto delle donne all’elettorato politico solo perché anch’esse possono reputarsi subietti di diritti politici stando alla formola generica dell’art. 24 dello Statuto, converrebbe far luogo a tutte le conseguenze di un tal principio; ed allora riuscirebbe malagevole il rinvenire la ragione per cui non potessero le donne diventare eleggibili posto ché, giusto l’art. 40 del medesimo Statuto, ad essere deputati la fondamentale condizione che si richiede si è il possesso dei diritti civili e politici, e nessuna espressa esclusione trovasi fatta del sesso femminile».

Appare strisciante la preoccupazione che la concessione del diritto di voto alle donne comportasse inevitabilmente il riconoscimento dell’elettorato passivo104. Riaffiorava l’antico pregiudizio sull’incapacità ‘naturale’ delle donne ad attendere alla gestione della cosa pubblica. Preconcetto nutritosi di riflessioni che, di solito, comprendevano «la minore intelligenza, la sua insostituibile missione nella famiglia, l’instabilità della sua volontà, l’inidoneità alla vita militare, la incapacità mentale e fisica a trattare i problemi politici, l’indifferenza alle questioni politiche»105. Tutti retaggi, come si vede, di secolari stereotipi culturali. La partecipazione al voto avrebbe significato una crepa nella monolitica convinzione della suddivisione dei ruoli: tradizione, consuetudine, usanza, costume erano i valori più frequentemente richiamati dietro i quali celare cliché e timori.

Quella «metà circa dell’umana generazione»106, la cui «intelligenza non può mettersi in dubbio»107, era identificata dai più nelle «madri, sorelle, spose, figlie, custodi del santuario domestico», governanti di quel regno che era la casa. Appena condotta fuori dalla cerchia protettiva delle mura familiari e gettata nell’agone politico, la donna era destinata a perdere la propria vera natura108.

Si aggiungeva l’apprensione che il voto femminile potesse in qualche modo condurre a risultati elettorali imprevedibili. Ci si basava sulla presunzione che le donne fossero in balìa o dei loro congiunti109, o di ideologie politiche di massa o di convinzioni religiose: esse erano immaginate ora socialiste, ora clericali, ora conservatrici, ma sempre incapaci di formarsi ed esprimere idee politiche in autonomia110.

Alla Corte d’appello di Roma, cui si era rivolto il procuratore del re presso il tribunale di Ancona, non restò che adeguarsi alle indicazioni della Corte di Cassazione e fu così che con sentenza dell’ 8 maggio 1907 si ordinò la cancellazione dalle liste politiche delle dieci maestre111. Il 6 luglio 1907 a identica decisione giunse la corte d’appello di Ancona112. Tuttavia per una breve stagione (dal luglio 1906 a maggio 1907) alcune maestre marchigiane avevano cullato il sogno di essere le uniche dieci donne italiane che in caso di crisi di governo e di indizione delle elezioni avrebbero potuto andare alle urne: 10 donne a fronte di 2.541.327 maschi.

5. Secolo nuovo, idee vecchie: una donna «perennemente inchiodata alla croce delle secolari esclusioni»113

La sentenza Mortara non restò tuttavia priva di effetti. L’eco raggiunse anche il Parlamento fino a divenire oggetto di un’ulteriore analisi interpretativa114 innestata da una petizione promossa da alcune donne115, tra cui spiccava il nome della combattiva, anche se ormai disillusa Anna Maria Mozzoni116.

Sostenuta dall’irredentista cosentino Roberto Mirabelli (un repubblicano strenuo fautore del suffragio universale), la petizione diede avvio al confronto in aula: ripercorrendo i lavori parlamentari delle precedenti sedute tra ricostruzioni storiche, richiami filosofici, evocazione del pensiero di illustri giuristi tedeschi, francesi e italiani e analisi comparatistiche, i deputati coinvolti rivelavano non solo il possesso di una solida cultura, ma anche la capacità di uno sguardo aperto alle dinamiche in atto nel resto nel mondo civilizzato.

Ricordava Mirabelli che «il tempo nostro – per le trasformazioni del codice civile rispetto alle leggi anteriori – ha detto alla figlia della borghesia: studia, pensa, scrivi, lavora. E la figlia del popolo, la figlia della borghesia – poiché il focolare non bastava più alle nuove esigenze della sua vita e del suo avvenire, ed alle nuove esigenze sociali – è diventata commessa di negozio, commerciante, industriale, telegrafista, telefonista, elettricista, giornalista, dottore in giurisprudenza, in matematiche, in medicina, maestra di scuola, dalla base al vertice – seguendo il progresso storico della nuova costituzione economica e civile della società. Di ciò non si lagna la donna; – ma, sbalzata ne’ campi del lavoro e della cultura, affrontando coraggiosamente il problema della vita, insorge contro l'assurdo che la gitta nella lotta per l'esistenza disarmata: senza, cioè, l’arma più formidabile che ci sia ne’ paesi retti a regime rappresentativo – il voto»117.

I riformisti si opponevano all’eventualità di rimandare il tema di nuovo sine die: esso andava affrontato e risolto immediatamente, non già attraverso cavilli interpretativi di leggi vigenti, ma mediante un intervento mirante a colmare la lacuna normativa118.

Da giurista e deputato, il napoletano Alberto Marghieri chiedeva di sottrarre la donna alla mala compagnia a cui l’aveva costretta il legislatore con le disposizioni elettorali comunali e provinciali, dove era accomunata a interdetti, truffatori, falliti: una genìa di soggetti cui le donne non meritavano di essere parificate e accostate. Per questo l’illustre giuscommercialista suggeriva un emendamento che riconoscesse l’elettorato alle «donne maritate o nubili che abbiano un determinato censo, tenuta a calcolo per le prime, anche la dote; alle pubbliche mercantesse ed a quelle che sono a capo d’industrie e di opifici; alle laureate; alle diplomate, purché da cinque anni addette all’insegnamento; alle addette da cinque anni a pubblici servizi dello Stato; alle scrittrici di libri destinati all'insegnamento ed a quelle generalmente annoverate tra i letterati e gli scienziati del paese»119, chiedendo per tutte il limite di età dei 25 anni120.

Mozione non nuova, visto che nei tornanti di riforma, per evitare ogni chiusura verso l’elettorato femminile, si era cercato di limitarlo ad alcune categorie: donne particolarmente istruite, in un’Italia che faceva del processo di alfabetizzazione un obiettivo prioritario, o impegnate in lavoro autonomo o di responsabilità gestionale e organizzativa o in impieghi di pubblica utilità.

Forte della propria esperienza di precedente relatore nel 1882121, l’on. Pietro Lacava, esponente della sinistra liberale vicino ora a Depretis ora a Crispi, rievocava come nella commissione incaricata di presentare l’allora progetto di legge elettorale vi fosse stato ampio consenso sul voto delle donne, respinto per un malinteso senso di ossequio verso Crispi, ritenuto contrario alla partecipazione politica femminile, con la conseguenza che «nella votazione noi perdemmo per pochi voti; altrimenti a quest’ora l’elettorato amministrativo alle donne sarebbe stato accordato»122.

Lacava rilevava la contraddittorietà di un sistema che consentiva alle mogli, in base al codice civile, di esercitare la patria potestà, di amministrare i beni parafernali, di essere tutrici del marito interdetto, e, in base alle ultime novità legislative, alle donne in genere di essere testimoni negli atti pubblici e privati (legge 9 dicembre 1877 n. 4167) e di far parte dei consigli delle opere pie (legge 17 luglio 1890 n. 6972), con l’unica ovvia avvertenza, contemplata nell’art. 12, che la donna maritata decadeva dalla nomina, se entro un breve lasso di tempo non fosse stato prodotto l’atto di autorizzazione maritale.

Per rendere maggiormente accettabile la riforma, il parlamentare lucano proponeva la concessione del solo voto amministrativo, rimandando a più mature stagioni quello politico (successivamente a una valutazione del test elettorale nei contesti comunali e provinciali): «L’avvenire non appartiene a noi; sarà quello che sarà; intanto diamo l’elettorato amministrativo alle donne e come censitarie e come capaci»123.

Altri colleghi, come il crotonese Alfonso Lucifero e l’avvocato veneziano Angelo Pavia, esponenti della sinistra, chiesero di dare finalmente una soluzione positiva a una richiesta che si trascinava stancamente, e vanamente, da decenni, senza che mai nelle diverse commissioni si fosse giunti, formalmente e apertamente, a negare tale diritto, salvo poi di fatto bocciare ogni tipo di emendamento in aula124.

Luigi Luzzatti, rifacendosi a Stuart Mill, invocato spesso dai sostenitori del suffragio femminile, non disconosceva la gravità della decisione e la necessità di modificare i costumi prima che le leggi, ma al tempo stesso invitava la Camera a non ricorrere a sotterfugi, come il rinvio agli uffici, per mascherare ciò che non voleva (né sapeva) fare125.

Ma ogni argomentazione fu vana. Come già i suoi predecessori (Depretis e Crispi), anche Giolitti, con un sofisma tecnico, riuscì a bloccare qualsiasi intento riformistico, precisando che non sarebbe stato possibile procedere a deliberazioni a fronte di una petizione e che quella presentata andava rinviata agli organi opportuni (con una diatriba se questi ultimi fosse il ministero competente o gli uffici della Camera): il che per Giolitti significava presa in carico della questione da parte della Camera solo dopo le relazioni delle giunte; per gli oratori favorevoli ad una discussione immediata equivaleva ad insabbiamento negli archivi.

Alle vibranti proteste di quanti contestavano che mediante un’eccezione procedurale si rifiutava il confronto sostanziale, Giolitti ribatteva caustico che «le gentili presentatrici di petizioni» avevano compiuto in un sol colpo due miracoli: rendere l’aula inusitatamente affollata in una giornata, come quella di lunedì, che la vedeva solitamente deserta e aver «messo d’accordo l’onorevole Mirabelli, il più erudito dell’estrema sinistra, con l’onorevole Luzzatti, la voce più eloquente ed il cuore più tenero della destra»126.

Anche Giolitti, pur dichiarandosi in linea astratta propenso al voto femminile, rispolverò tuttavia i più vieti argomenti: mentre da un lato egli valorizzava il ruolo della donna, che si era modificato col tempo nella società, dall’altro lo affossava con il trito richiamo ai consolidati costumi italici, suscitando le indignate proteste di alcuni presenti127.

Per convincere del tutto l’uditorio, il presidente del Consiglio sfoderò l’ultimo spauracchio: «se le donne fossero state chiamate a votare prima del ‘48, se si fosse dovuto o no fare l’Italia, credete che l’unità d’Italia si sarebbe compiuta?»128.

Così, proclamandosi favorevole a un processo graduale, sperimentando prima il voto amministrativo quale faro per il futuro legislatore e solo in un secondo momento valutare se estendere alla donne anche quello politico, il leader di Dronero rinviava la petizione al Ministero dell’interno.

Era tuttavia impossibile ormai ignorare la questione, divenuta sempre più pressante e urgente, anche alla luce di una maggior presa di coscienza da parte delle donne stesse129. Per questo il 22 aprile 1907, tenendo fede all’impegno assunto, il governo nominò una commissione di 14 membri, presieduta dal magistrato cesenate Gaspare Finali, esponente della Destra, per giungere a una soluzione130. Il disinteresse della commissione fu dimostrato dalla scarsa partecipazione alle sessioni di lavoro (molte delle quali andarono deserte) finché il 5 luglio 1911 Finali faceva giungere una lettera al presidente del Consiglio nella quale dichiarava l’ennesimo niet per motivi di opportunità politica, ossia la preoccupazione che il partito di governo potesse essere danneggiato dal voto femminile.

In uno stillicidio che pareva senza fine, il Parlamento tornò ad occuparsi del tema nel 1910. Promotore fu il genovese Natale Gallino, che dopo un rapido excursus dal progetto Peruzzi del 1863 fino ai dibattiti di pochi anni prima, appellandosi al presidente Sonnino (da cui otteneva pieno appoggio), chiedeva di respingere quel ridicolo pregiudizio che fino a quel momento aveva reso possibile perpetrare un’ingiustizia nei confronti delle donne, non solo negando loro il diritto di voto, ma impedendo l’esercizio delle libere professioni e sottoponendole a un’ormai vetusta autorizzazione maritale131.

Pur rimanendo senza seguito, il passo seguente fu il riconoscimento alle donne della facoltà di essere elettrici ed eleggibili nelle camere di commercio, mentre l’anno successivo le si ammise alle cariche e agli uffici elettivi nell’istruzione elementare e popolare (1911).

Il 2 maggio 1912 arrivò in Parlamento la proposta di riforma della legge elettorale politica promossa da Giolitti. Si ricomprendevano tra i votanti gli analfabeti che avessero compiuto 30 anni e tutti i ventunenni che avessero prestato servizio militare purché sapessero leggere e scrivere.

Inevitabile che i ‘nuovi’ requisiti non lasciassero indifferenti i deputati in aula: fino ad allora ci si era fatto vanto di aver fondato il suffragio sull’istruzione dei soggetti chiamati a votare (e nonostante questo alle donne anche se istruite si era negato il voto); il disegno di legge proposto rendeva ancora più inaccettabile tale esclusione.

Lo evidenziava tra i primi il liberal democratico Carlo Schanzer, per il quale costituiva un insulto alla logica elevare al rango di elettore «il contadino, il facchino, il manovale, che non sanno scrivere il proprio nome» e non la donna «anche se letterata, anche se avrà fatto gli stessi studi che abbiamo fatti noi»132. Nella circostanza veniva altreí ridimensionato il timore di un’invasione delle piazze da parte di donne attivamente partecipanti alla vita politica o interessate ai comizi. A quanti chiedevano preoccupati se la strada intrapresa avrebbe condotto all’eleggibilità delle donne alla Camera, Schanzer, caustico e cauto, rispondeva: «lasciamo qualche cosa da pensare e da deliberare anche ai nostri figli ed ai nostri nipoti; io di questa questione non mi preoccupo per ora; mi preoccupo invece della grave ingiustizia di escludere la donna dall’esercitare qualsiasi influenza sulla formazione delle leggi alle quali è sottoposta»133. Il deputato di origine austriaca sosteneva tuttavia con forza che, se suffragio universale doveva essere, ciò significava ammettere al voto tutte le donne: non si trattava infatti di dare soddisfazione alle intellettuali esponenti dell’aristocrazia e della borghesia, ma di compiere un atto di giustizia sociale, consentendo soprattutto alle proletarie di esercitare un diritto di particolare significato, anche se egli non mancava di precisare che ammettere al voto tutte le donne indistintamente sarebbe stato possibile solo quando «la maggioranza delle donne italiane lo reclamerà, ciò che, per vero dire, finora non mi sembra si verifichi»134.

Concordava di principio, ma dissentiva di fatto con l’estensione del voto a tutte le donne Lucifero, realisticamente consapevole che una simile linea, per quanto giusta, corretta e condivisibile, sarebbe stata bocciata. Egli suggeriva, quindi, come correttivo, di limitarsi per il momento a riconoscerlo a donne in possesso di specifiche qualità intellettive o economiche: impossibile, proseguiva Lucifero, che la Camera respingesse simile accorgimento senza cadere nel paradosso di accreditare il diritto di voto non già come un diritto umano, ma come un diritto sessuale135.

Filippo Turati, che dichiarava di non avere ragioni per «cantare osanna al progetto», imputava allo stesso di aver perso l’occasione per fare dell’Italia uno Stato precursore rispetto ad altre grandi nazioni che ancora negavano il voto alle donne. Se pure era pronto ad ammettere che nel nostro paese il movimento femminista era ancora «teorico ed astratto, “apolitico” come, con curiosa contraddizione, ama definirsi», non poteva essere questo il motivo per non concedere il voto136.

Se si era argomentato che l’analfabetismo non escludeva, di per sé, il discernimento elettorale, allora «vi sarebbero, agli effetti del discernimento, due diversi analfabetismi: l’uno in pantaloni, l’altro in gonnelle... Converrebbe insomma decidersi. O si è pel diritto di voto attribuito a un grado o a una presunzione speciale di coltura e di capacità, e allora potremo indugiarci nelle vecchie discussioni bizantine, se la donna valga più o meno o diversamente dall’uomo, eccetera, eccetera; o si viene sul terreno nostro, si ammette che il diritto politico si connette essenzialmente col fatto di essere cittadini, di avere dei diritti da difendere, dei doveri da esercitare, dei pesi da sopportare, dei tributi da versare, e si dice che per questo, in uno Stato democratico, tutti i ceti, tutte le classi debbono poter pesare sulla bilancia politica; e allora con quale logica escludiamo in blocco la metà della nazione? Che è questo suffragio universale che esclude metà dell’universo sociale; questo suffragio popolare per cui le popolane non fanno parte del popolo?»137.

A quanti, a circa mezzo secolo dall’unità d’Italia, ancora tratteggiavano un’ideale di donna regina della casa ed angelo del focolare, Turati replicava che in questo modo non si rendeva omaggio a milioni di regine spodestate da un regno (quello della casa) per divenire lavoratrici: «tutte queste donne sono sfruttate come gli uomini; assai peggio degli uomini; hanno i doveri, gl’interessi, le lotte comuni cogli uomini: insomma “sono uomini”. Ecco ciò che è avvenuto in questo mezzo secolo! Le donne diventarono uomini»138.

Nonostante le pressioni, Giolitti non mutò il proprio atteggiamento, ritenendo che occorresse procedere per gradi: intervenire sul codice civile per mutare la condizione della donna; concedere in sequenza il voto amministrativo («essendo evidente che il voto amministrativo si riferisce a questioni che più facilmente sono comprensibili a tutti»139), ma ritenendo assolutamente prematura qualunque estensione del voto politico. Non solo. Il capo di governo liquidava l’intero dibattito come un mero esercizio di stile, privo di qualsiasi possibilità concreta di attuazione140.

Era una posizione condivisa, tra gli altri, dall’avvocato milanese Emilio Campi, che portava alla luce la vera ragione ostativa al voto femminile: «i nostri colleghi i quali propugnano il conferimento del diritto elettorale alle donne mi sembrano illogici: perché per arrivare alla completa parificazione dei sessi, si dovrebbe conferire alle donne anche l’eleggibilità. Del resto, questa è una questione su cui non è il caso d’insistere, perché per ora si tratta di amore platonico, di una specie di flirt»141.

Fu nella seduta del 14 maggio, con la votazione dell’art. 1, che le posizioni pro e contra il suffragio femminile si delinearono con chiarezza. E sembravano posizioni inconciliabili: vi era chi tra l’irridente e l’aggressivo rifiutava ogni spiraglio, e chi, anche se ormai rassegnato ad un esito negativo, non rinunciava a combattere per rivendicare un sacrosanto diritto142.

Il “salto nel buio”143, temuto da Giolitti, coincidente con l’approvazione del suffragio femminile, non si compì: chiamati a votare, 209 deputati si espressero negativamente, contro i 48 favorevoli e anche i rari e timidi tentativi di risvegliare nel Parlamento interesse per il tema si spensero sul nascere144.

E intanto la guerra era alle porte.

6. Grazie, ma no

Come si anticipava, la Grande guerra poneva una questione di opportunità politica: ripagare in qualche modo le donne per quanto sofferto nei difficili anni bellici145.

Il 26 aprile 1918 la Camera affrontava l’estensione del voto a quanti avessero prestato servizio nell’esercito anche se minori di 21 anni e in quell’occasione il Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, sorprese l’assemblea rivelando un radicale mutamento di pensiero rispetto al passato. Orlando prese le distanze dalla nota critica alla sentenza Mortara146 e dalla sue posizioni antecedenti, asserendo che più che un mutamento di opinione personale si trattava di un mutamento dei tempi al quale occorreva adeguarsi.

Fermo restando il rifiuto di considerare il diritto elettorale come un diritto primordiale di natura, proprio dell’essere umano in quanto tale, e respingendo pertanto l’opinione di quanti configuravano la negazione del diritto di voto alle donne come un disconoscimento dei diritti essenziali inerenti alla personalità, Orlando ammetteva che era ormai tramontata la figura della donna «incapsulata nella famiglia in cui poteva spendere tutto un tesoro di attività mirabile» e per questo priva di un interesse sociale ed economico di protezione di cui essere portatrice attraverso il voto.

«Ma ora, che sotto la pressione di un’evoluzione sociale sempre più incalzante, abbiamo il fenomeno sociale del lavoro femminile, della contribuzione sempre più diretta, della trasfigurazione sempre più accelerata» della donna anche in virtù della pressione esercitata dalla guerra, «io dico di aver cambiato opinione».

Non smentendo tuttavia un iter argomentativo che nelle diverse oratorie parlamentari era divenuto usuale, ossia contrapporre ad una premessa orientata ad accogliere l’istanza del diritto di voto alle donne una soluzione poi negativa, anche Orlando proponeva all’uditorio una serie di interrogativi retorici, il cui scopo era quello di differire ulteriormente la concessione del suffragio. Perplesso, dubbioso, incerto su una conquistata maturità per il compimento di un così grande passo: erano questi i sentimenti che il giurista siciliano lasciava trapelare, riversando sulla Camera l’onere di una scelta su cui il capo di Gabinetto non nascondeva scetticismo e titubanza147. Egli insisteva sulla necessità di un riconoscimento progressivo148, così come era avvenuto per gli uomini, con una certa confusione di piani: per gli uomini non si era mai posto il problema radicale se concedere o no il diritto di voto (scontata la risposta affermativa), ma semmai si era trattato volta per volta di intervenire sui requisiti (età, istruzione, censo, qualità specifiche); per la donna il problema era di fondo: riconoscerglielo o meno?.

Appariva evidente che la mozione di modifica avanzata nella primavera del 1918 aveva un valore simbolico: tributare riconoscenza a quanti avevano combattuto al fronte in difesa della patria, soprassedendo su ogni altro requisito che non fosse l’aver prestato servizio militare. Non vi era spazio per petizioni diverse. Ciò costrinse il socialista ligure Giuseppe Canepa a presentare una mozione di princìpi, come dirà egli stesso, priva di immediato riscontro pratico, ma tesa a mobilitare le forze politiche nell’assunzione di un impegno non più derogabile: la presentazione d’urgenza da parte del Governo di un altro progetto di legge che estendesse l’elettorato e l’eleggibilità, amministrativa e politica, a tutti i cittadini maggiorenni d’ambo i sessi.

La guerra, dichiarava Canepa, aveva squarciato il velo sulle effettiva capacità delle donne dal momento che nel nome «augusto della Patria le sono stati imposti i più duri sacrifici» e le più dolorose perdite, affrontate con saldezza d’animo. «E non soltanto il diritto si fonda sul dolore ma benanco nelle capacità che le donne hanno dimostrato durante la guerra. Voi avete visto come dappertutto nelle case, negli studi, nei fondaci, nei campi, negli ospedali la donna abbia mostrato di saper supplire all’opera dell’uomo assente, con una saggezza pratica, con una energia, con un valore veramente ammirevole. Non è dunque a chi ha dato tali esempi che si possono chiudere in faccia le porte della vita pubblica»149.

Le dichiarazioni di principio, tuttavia, rimandavano, ancora una volta, un’approfondita disamina a un domani non meglio precisato (seppure si auspicava che fosse imminente), tanto che il relatore Salvatore Barzilai, che dopo essere divenuto deputato tra le file dell’estrema sinistra aveva collaborato alla fondazione del partito repubblicano, riassumendo le posizioni espresse, si mostrava abile mediatore tra quanti chiedevano il voto per le donne «qui e ora» e quanti mostravano un ormai anacronistico scetticismo.

Concordando con Orlando sul fatto che non fosse più valida l’antica formula romana che assegnava alla donna il solo compito di filare la lana e rimanere in casa (invocata, come si ricordava, da Zanardelli), il triestino Barzilai (di discendenza ebrea) si mostrava tuttavia esitante nel rallegrarsi dell’accesso alla vita lavorativa: era il bisogno a spingerla verso questa via, aggiungendo fatica e fatica, con conseguente trascuratezza dei doveri familiari150.

Tra tumulti, contestazioni, invettive, sollevate dal radicalismo di sinistra che trovò in Claudio Treves il proprio portavoce, la legge elettorale fu approvata nella sua formulazione originaria: le donne, ancora una volta, rappresentavano un problema senza soluzione.

Se non altro, le pregiudiziali poste da più parti, in primis dal Governo, ebbero il merito di accelerare l’intervento per l’abolizione dell’autorizzazione maritale, invocata da molti come il primo passo verso una parificazione ‘politica’ dei due sessi151.

La riforma elettorale sembrava a portata di mano: il 1919 e il 1920 furono anni fondamentali. Il dibattito alla Camera era ormai favorevolmente orientato in questo senso, ma furono le vicende politiche a impedire l’esito finale.

Il 17 luglio 1919, all’ennesimo dibattito sul sistema elettorale politico, il deputato Ignazio Larussa chiedeva un abbassamento del limite di età sia per l’elettorato attivo che passivo, nell’intento di svecchiare la Camera, ma riteneva che non si potesse parlare di vero suffragio universale senza coinvolgere le donne152, sostenuto in questo da buona parte dei deputati, appartenenti a schieramenti politici trasversali.

Dal mero intento si giunse a una effettiva proposta di legge il 29 luglio dello stesso anno153. Essa estendeva le leggi vigenti sull’elettorato politico e amministrativo a tutti i cittadini di ambo i sessi, con un’argomentazione in certa misura avvincente. Confutata scientificamente l’inferiorità fisiologica della donna, si evidenziava come si dovesse invocare la parità di diritti non sulla base di un’asettica uguaglianza, ma sull’innegabile diversità, ossia sui differenti interessi e bisogni di uomini e donne. Solo così queste ultime avrebbero potuto rivendicare il diritto di essere propugnatrici dirette delle proprie specifiche esigenze, impossibili da delegare a chi di quei valori e di quelle necessità non aveva esperienza diretta154.

Un’analisi comparatistica metteva in luce come ormai in buona parte del mondo occidentale (e non solo) la donna godesse del diritto al voto: «non resta che all’Italia di arrivare, non ultima, in questa legislazione che batte ormai alle porte dei Parlamenti fin qui rimaste chiuse»155.

L’esito della guerra comportava, inoltre, una soluzione urgente, dettata dall’incorporazione delle terre irredente. Ora, «se nel 1863 l’Italia ha dovuto nel suo Parlamento consacrare l’assurdo di escludere le donne della Lombardia e della Toscana da quei diritti all’elettorato che cessati Governi loro consentivano, per carità di patria, per dignità di patria non si rinnovi altrettanto nel 1919»156.

Il sottosegretario di Stato per l’interno del primo gabinetto Nitti, Giuseppe Grassi (futuro membro dell’assemblea costituente e ministro di grazia e giustizia nei governi De Gasperi), dichiarò che, pur non opponendosi il Governo alla presa in considerazione della proposta di legge, vi erano oggettive difficoltà di attuazione, in considerazione del fatto che alla luce della riforma dodici milioni di donne sarebbero state ammesse al voto. Agli inconvenienti di ordine pratico si aggiungevano considerazioni di natura politica «dato il cambiamento della base stessa della sovranità popolare su cui riposa il Governo parlamentare». Per questo si decise di inviare il testo sul voto femminile con urgenza agli uffici, mentre in aula il dibattito sulla riforma elettorale politica proseguiva: avviato il 2 agosto, con Nitti che premeva per un’approvazione celere del disegno di legge, si giunse il 9 agosto all’approvazione, in un serrato confronto.

Tra enunciazioni di principio157, formule retoriche158, dichiarazioni stereotipate, si arrivò a settembre, quando la rinviata discussione sull’elettorato femminile tornò ad essere l’oggetto principale di discussione. Nell’occasione si introdusse un emendamento con il quale si escludevano dall’elettorato le persone di cui agli artt. 15 e 16 del Regolamento sul meretricio nell’interesse dell’ordine pubblico, della salute pubblica e del buon costume, pubblicato sulla G.U del 29 ottobre del 1891159. Si trattava di disposizioni che stabilivano i criteri utili per la qualificazione dei cd. locali di meretricio, intesi come i luoghi in cui si trovassero radunate o due o più donne a scopo di meretricio, oppure anche occupati da una sola donna qualora questa esercitasse pubblicamente la prostituzione e avesse subíto precedente condanna o risultasse aver trasmesso ad altre persone malattie veneree.

La proposta, diretta ad evitare una ‘contaminazione’ in sede elettorale tra donne virtuose ed oneste ed altre di malaffare, suscitò proteste tra l’ironico e l’indignato, ma incontrò anche alcuni sostenitori160.

Nella seduta del 4 settembre, Giovanni Rosadi, che pure aveva sottoscritto la richiesta del suffragio femminile, mostrava qualche cedimento, scorgendo nella concessione del voto politico una sorta di liberalità (non richiesta) chiamata quasi a compensare il senso di colpa nascente dall’aver promosso la guerra, vista l’intima, ma illogica relazione che molti avevano sottolineato esistere tra il conflitto mondiale e il diritto di voto. Era soprattutto evidente la volontà di distinguere la donna elettrice da quella eleggibile: sul punto, infatti, Rosadi invitava la Camera a una seria ponderazione. Ferma invece la condanna dell’emendamento, condotta con salace arguzia fiorentina, come affermava Monti-Guarnieri, nei confronti di una disposizione che privava dei diritti elettorali le tenutarie di case di prostituzione e quante in esse esercitassero commercio carnale, ma non gli sfruttatori delle stesse, con un giudizio di doppia moralità ritenuto inaccettabile161.

La visione ideologicamente orientata di Canepa trovava invece proprio nella guerra e nell’auspicio d’unrovesciamento del capitalismo la ragione prima della concessione alla donna del diritto di voto. Nella convinzione che fosse il modo di produzione a determinare la sovrastruttura politica e sociale, egli sosteneva che le donne arrivassero alla vita politica nel momento in cui era la classe dei lavoratori (e delle lavoratrici) a diventare forza motrice di un paese: questo era quanto avvenuto con la fine della prima guerra mondiale162.

Un durissimo attacco fu sferrato dal conservatore (e abile trasformista politico) Stanislao Monti-Guarnieri, che deprecava tanto il suffragio universale, quanto l’asservimento della Camera alla volontà del Governo, capace, all’atto delle votazioni, di trasformare in docili sostenitori deputati pronti a dichiararsi, fuori dall’aula, fieri avversari delle riforme governative163. E a chi, come Rosadi, sosteneva che la Germania, per prima, aveva già provveduto ad eleggere una rappresentanza femminile nel Reichstag164, il deputato di Senigallia acidamente ribatteva: «io non so se siano entrate in quell’assemblea le donne più colte; credo ci siano entrate le donne più brutte», le quali non solo non avevano dato alcun contributo allo sviluppo della società tedesca, ma avevano creato incidenti spinosi, più di quanto fosse avvenuto nel passato. Il discredito gettato era totale: il parlamentare marchigiano vaticinava guai e sciagure per il paese, accusando i fautori del cambiamento di essere spinti dal solo desiderio di fare delle donne un cieco strumento della loro politica165.

Si trattava di valutazioni che si mostravano anacronistiche agli occhi dei più, tanto da indurre Filippo Turati a prendere la parola contro «il discorso lievemente medievale» di Monti-Guarnieri, confessando tuttavia di essere ormai annoiato come chi, non avvertendo ormai più un vero nemico davanti a sé, «si accanisce a dar colpi contro un materasso»166.

Il 6 settembre l’estensione dei diritti all’elettorato politico e amministrativo alle donne fu votato nella formulazione presentata da Nitti167 e raccolse il consenso di 174 deputati su 229 votanti168. Ma la legge non fu mai discussa in Senato per la chiusura anticipata della legislatura.

Il 12 novembre 1920, l’on. Amedeo Sandrini, approfittando delle diverse richieste di rivedere le norme per le elezioni amministrative, presentava un emendamento, sostenuto da altri deputati169, che ammetteva le donne al voto alle stesse condizioni previste per gli uomini170, nell’auspicio che fosse questo il primo passo per giungere allo stesso risultato anche per le elezioni politiche171. Questa volta, pur se osteggiato con eccezioni di natura processuale172, l’emendamento venne approvato il 19 novembre173, con 240 voti favorevoli su 250 votanti174, ma lo scioglimento anticipato delle Camere impedì il passaggio in Senato.

L’esperienza liberale terminava qui, tra solenni promesse, proclami, e costanti rinvii. Sarebbe toccato al governo fascista tagliare il traguardo agognato con la legge Acerbo del 22 novembre 1925, n. 2125175, la quale iscriveva nelle liste elettorali amministrative le donne che si trovassero in una di queste condizioni: aver compiuto il 25° anno di età; essere state decorate con medaglie al valore militare o al valore civile o con quella dei benemeriti della sanità pubblica o dell’ istruzione elementare o di quella per servizio prestato in occasione di calamità pubbliche; essere madri o vedove di caduti in guerra; avere l’effettivo esercizio della patria potestà o la tutela e saper leggere e scrivere; se nate prima del 1894, l’aver superato l’esame di promozione della 3a elementare; se nate posteriormente, il produrre un certificato di promozione dall’ultima classe elementare esistente nel Comune o frazione di loro residenza; il pagare annualmente per contribuzioni dirette al Comune una somma non inferiore a 100 lire.

L’apparente vittoria si tramutò in crudele beffa l’anno successivo, quando con la legge del 4 febbraio si abolì di fatto la necessità di procedere nel futuro a votazioni, dal momento che l’introduzione della figura del podestà impediva qualunque funzione rappresentativa degli organi.

Fu di nuovo una guerra a riproporre il tema del suffragio femminile e dopo 80 anni circa i dubbi e le perplessità sembravano riproporsi sotto mentite spoglie finché, grazie al d.l.lgt. del 1° febbraio 1945, per la prima volta, le donne furono ammesse al voto amministrativo nel 1946. La risposta fu entusiastica. Su 10.329.635 iscritte parteciparono al voto 8.441.537: «percentuale altissima se si tiene conto che trattavasi del primo esperimento elettorale dopo la dittatura»176.

Al referendum istituzionale e per l’Assemblea Costituente l’89% delle aventi diritto espresse il proprio voto, rappresentando quasi la metà dei votanti (12.998.131 donne su un totale di 24.947.187). A dispetto dei timori avanzati, che vedevano nell’elettorato femminile la condivisione di posizioni conservatrici e filomonarchiche o addirittura una volontà astensionista, fu la forma repubblicana a prevalere177.

Lo strappo si era consumato e una nuova progettualità si andava dipanando: «Noi non vogliamo – si ascoltò nella Costituente – che le nostre donne si mascolinizzino, aspirino ad una assurda identità con l’uomo; vogliamo semplicemente che esse abbiano la possibilità di espandere tutte le loro forze, tutte le loro energie, tutta la loro volontà di bene nella ricostruzione democratica del nostro Paese»178. E questo è un impegno destinato a non conoscere fine.

Remitido el 15 de septiembre de 2015. Aceptado el 24 de octubre de 2015.

*Ordinario di Storia del diritto medievale e moderno nell’Università di Milano-Bicocca (Italia).

1 Natale Gallino, Atti del Parlamento Italiano [d’ora in poi AP], Discussioni [d’ora in poi Discussioni], XXIII Legislatura, Sessione 1909-1910, Volume IV, I Sessione dal 18/11/1909 al 23/02/1910, Tornata del 19 febbraio 1910, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1910, p. 5175.

NOTAS

2 Maurice Duverger, La partecipation des femmes a la vie politique, Unesco, Paris, 1955, p. 7.

3 Per l’Europa i paesi coinvolti erano stati, oltre ai quattro ricordati, il Belgio, la Gran Bretagna, la Norvegia, i Paesi Bassi e la Svizzera; per l’America l’Argentina, gli Stati Uniti e il Messico; ed infine Egitto, India, Giappone, Turchia e Siria (Duverger, La partecipation, cit., p. 11).

4 Nel corso del rapporto non vengono esplicitate le ragioni di questa selezione. Ci si limita laconicamente ad affermare che la scelta era da imputarsi all’Unesco, a cui Duverger non risparmia alcune critiche, forse anche nell’intento di salvaguardare e difendere i risultati del lavoro. Si legge infatti nelle note esplicative che, dopo una riunione svoltasi a Parigi il 15 e il 16 novembre 1953 che aveva consentito un confronto sui risultati raggiunti, era stata imposta un’accelerazione nei tempi a discapito dell’accuratezza della disamina. Scrive infatti Duverger: « Il est regrettable que les règles administratives et budgétaires impérieuses auxquelles est soumise I’Unesco aient obligé à déposer le présent rapport général le 31 décembre 1953, alors que l’ensemble des rapports nationaux n’étaient prêts qu’au début de novembre de la même année. En conséquence, la rédaction du présent volume de synthèse a dû être faite dans des conditions de rapidité extrême rendant difficile un travail scientifique approfondi » (ivi, p. 12).

5 Ivi, p. 8.

6 Ibidem. La questione è destinata ancora oggi a generare posizioni contrapposte: da un lato si sostiene che studi specifici e settoriali dedicati alle donne o interventi legislativi fondati sul genere non facciano che acuire e sottolineare la diversità e la situazione di minorità del sesso femminile, rendendo palese la necessità di provvedimenti ‘di tutela’; dall’altro lato si schierano coloro che intravedono in questa metodologia di intervento un modo efficace di superamento di posizioni culturali ancestrali, insormontabili attraverso uno spontaneo processo adesivo.

7 Ibidem.

8 Duverger, La participation, cit., p. 10.

9Ibidem.

10 Appare evidente la volontà del legislatore di omaggiare la donna nella discussione alla Camera del 12 dicembre 1916, quando la richiesta di abolire l’antiquato istituto dell’autorizzazione maritale fu motivato da Amedeo Sandrini anche dall’esigenza di offrire un riconoscimento «alla donna che non soltanto negli ospedali e nelle multiformi manifestazioni dell’organizzazione civile, ha dato, con generoso spirito di sacrifizio, le sublimi energie del suo cuore in aiuto di ogni sofferenza, di ogni miseria; che non soltanto negli stabilimenti e nelle officine, dove si apprestano i mezzi necessari alla guerra, ha portato copioso contributo di lavoro, ma nelle famiglie, negli uffici e nelle aziende ha sostituito i mariti e i congiunti chiamati alle armi, dando prova di una sicura capacità fattiva e direttiva che è in stridente antitesi con quella diminutio capitis, che nel consorzio famigliare e sociale le è imposta dall’articolo 134 del Codice civile». A queste ragioni di gratitudine se ne aggiungeva una di carattere politico: «la condizione giuridica della donna nei paesi che l’eroico nostro esercito ha già in parte riunito alla madrepatria e dei quali auspichiamo la prossima completa redenzione; ivi la donna maritata, specialmente per quanto riguarda la legislazione ungherese, ha un trattamento giuridico più liberale, è doloroso il dirlo, in confronto del nostro codice civile. Ora non è possibile togliere alle donne delle popolazioni redente una situazione giuridica favorevole, che già avevano, come non è possibile instaurare una condizione giuridica diversa fra le donne di uno stesso Stato». (AP, Discussioni, XXIV Legislatura, Sessione 1913-1917, Volume XI, I Sessione dal 12/12/1916 al 03/03/1917, Tornata del 12 dicembre 1916, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1917, pp. 11573-11574).

11 Che le guerre attuassero silenziosamente una grande rivoluzione era pronto a riconoscerlo anche Filippo Vassalli, il quale ammetteva che si trattava di una rivoluzione imposta dagli eventi e senza quasi avervi partecipato [Filippo Vassalli, Della legislazione di guerra e dei nuovi confini del diritto privato (Prolusione al corso di Istituzioni civili letta nella R. Università di Genova il 22 novembre 1918), in Rivista del diritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, XVII (1919), I, p. 3].

12 Paolo Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia. 1796-1974, il Mulino, Bologna, 2002, p. 183.

13 L’istituto, infatti, «fu di quelli che più preoccuparono il legislatore italiano, quando, in mezzo a tanta discordia fra le legislazioni allora vigenti, si trattò d’inserirlo nel nostro codice» (Carlo Spalazzi, Autorizzazione della donna maritata, in Digesto Italiano, vol. IV, parte II, UTET, Torino, 1926, p. 462).

14 Nella relazione del 1863 Pisanelli rifletteva: «Ma quali sono i benefizi dell’autorizzazione maritale? Se la concordia regna fra i coniugi, tutti gli atti sono regolati da consenso comune, ed il marito sarà il naturale consultore della moglie senza che la legge lo imponga. Ma se vien meno la pace domestica, l’autorizzazione maritale diventa un’arma di violenza nelle mani del marito; la moglie cercherà rifugio nei tribunali, e l’ultima conseguenza di questa disposizione della legge sarà la separazione dei coniugi, cioè lo sperpero e la rovina delle famiglie […]. Essa non è attualmente conosciuta nelle provincie lombarde, e giureconsulti e magistrati insigni di quel paese attestano che la libertà lasciata alla moglie di regolare le proprie sostanze non fu mai pregiudizievole agli interessi della famiglia più di quella lasciata al marito» (Relazione sul progetto di Codice civile presentato dal Guardasigilli Pisanelli [26 novembre 1863], in Atti Parlamentari, Senato, Documenti, Sessione 1863-1865, doc. 45). Quasi indietreggiando rispetto alle posizioni assunte nel ruolo di ministro (tanto da indurre «il dubbio di una conversione»: così Antonio Scotti, Dell’autorizzazione maritale e giudiziale secondo il Codice civile italiano, in Archivio giuridico, IV, 1869, p. 406) e a sostegno della diversa scelta compiuta dal codice che si stava promulgando, Pisanelli motivava in questo modo ‘il cambio di orientamento’: «Nel progetto che io ebbi l’onore di presentare al Senato non vi era l’autorizzazione maritale. La commissione senatoria credette opportuno di aggiungere questa cautela. Quando si esaminano le condizioni dei vari Stati d’Italia, si vedrà che nella grande maggioranza del popolo italiano questa cautela è osservata, e che perciò molti vedrebbero con grande apprensione emancipata l’amministrazione della donna per i beni parafernali da quella ingerenza che le leggi dei varii Stati italiani accordano al marito. Vi ha nondimeno un paese, e questo è la Lombardia, in cui la donna amministra indipendentemente dal marito la sua privata fortuna. Quando si vogliono raccogliere indagini intorno ai risultamenti che colà ha ottenuto questo sistema le opinioni non si mostrano conformi; e per la verità lo udii lodare da molti, ma d’altri ancora biasimare. Si sarebbe forse potuto tentare una novità per molti parti d’Italia senza far indietreggiare la Lombardia: ma non è grave l’affidarsi a nuovi studi, a più sicura esperienza. L’argomento è gravissimo, e certamente se si abolisse l’autorità maritale, ove altri freni, che la civiltà sola può dare, non soccorressero al suo difetto, la famiglia rimarrebbe grandemente scossa e forse turbata» (AP, Discussioni, VIII Legislatura, Sessione 1863-1865, Volume X, XVI della Sessione, Continuazione del 4° periodo dal 05/01/1865 al 22/02/1865, Tornata 14 febbraio 1865, Tipografia Eredi Botta, Roma 1890, pp. 8218-8210). In altre parole, Pisanelli candidamente ammetteva che si era preferito sacrificare la ‘modernità’ di un territorio (il Lombardo-Veneto) anziché fare di quel ‘laboratorio sperimentale’ l’esempio cui adeguare il resto della nazione.

15 «Interamente composta di alti magistrati e di consiglieri di Stato», essa si fece interprete di un sentimento condiviso a livello politico che vedeva nell’autorizzazione una protezione a favore della donna «affinché non cadesse schiava dei capricci di un marito scialacquatore o speculatore arrischiato» (Ungari, Storia, cit., pp. 162-163).

16 Si ribadiva la necessità di sottomettere all’autorizzazione atti di intrinseca gravità, tali da richiedere «il concorso adesivo del marito, in ossequio non pure all’autorità morale del capo della famiglia, ma sì pel buon governo della famiglia stessa» (Relazione del ministro guardasigilli Vacca al Re d’Italia sul codice civile [25 giugno 1865], Codice civile del Regno d’Italia, Torino, 1866, pp. XIII-XXVIII).

17 Erano questi i temperamenti che con savio intendimento, per dirla con le parole del Guardasigilli Vacca, attenuavano il rigore del principio dell’autorizzazione maritale. La previsione, nel codice, dell’autorizzazione consentiva sia di sfuggire a quelle che il Ministro definiva le esagerazioni del diritto germanico sia all’asprezza del dettato francese. Proprio contro questa concezione si leverà la voce di Ercole Vidari che dalle pagine dell’Archivio giuridico, trattando di legislazione cambiaria, ne approfittava non solo per affermare il suo favore al codice austriaco, ma per stigmatizzare la relazione di Vacca. Dopo aver definito eccessiva e tirannica la soggezione della donna al marito ex art. 134, egli aggiungeva: «il Codice austriaco è assai più liberale dell’italiano, e rispetta nella donna quella personalità giuridica che il contratto di matrimonio dovrebbe assumere a fondamento di sua propria istituzione, e non annientare quasi come fa l’articolo 134. E per quanto queste parole possono parere strane o ridevoli anche a taluno, massime a chi non si peritò di qualificare per esagerazioni di diritto germanico le disposizioni del Codice austriaco, io non mi stancherò dal ripetere, che l’avere trasfuse, pure per questa parte con poche mutazioni, le disposizione del Codice Napoleone nel codice italiano fu un grande errore» (Ercole Vidari, Studio critico e comparativo di legislazione cambiaria, in Archivio giuridico, I, 1868, pp. 563-564).

18 Questa norma aveva sollevato le perplessità di Pasquale Stanislao Mancini, per il quale si trattava di «un’altra disposizione durissima, e talvolta ineseguibile, si è che quando il marito ricusi di autorizzare la moglie, e questa chiegga l’autorizzazione al tribunale, debba il tribunale necessariamente prima sentire personalmente il marito a porte chiuse. A che quest’assoluta necessità? Se il marito è presente, si citi pure, sta bene; ma se il marito è lontano, è infermo, viaggia all’estero? Non potendosi sentire personalmente, la moglie chiederà ed attenderà invano l’autorizzazione giudiziale? Chi non vede a quale eccesso si spinge questa gelosa protezione del legislatore per l’autorità maritale? Aboliscansi almeno queste inutili esagerazioni, si permettano le autorizzazioni generiche, ma rivocabili; si lasci al tribunale la facoltà, ma non gli s’imponga necessariamente l’obbligo di sentire in ogni caso personalmente il marito» (AP, Discussioni, VIII Legislatura, Sessione 1863-1865, Volume X, XVI della Sessione, Continuazione del 4° periodo dal 05/01/1865 al 22/02/1865, Tornata 17 febbraio 1865, p. 8317).

19 «Distinto avvocato, dotto giureconsulto, solerte deputato», Ninchi fu acuto e persistente critico del codice civile, di cui accusava soprattutto la soverchia ingerenza dello Stato nella vita degli individui, per i quali egli auspicava la massima libertà: di coscienza, di culto, morale. Convinto fautore della laicità dello Stato, si distinse per il discorso alla Camera del 20 aprile 1863, relativo al bilancio del Ministero di Grazia e Giustizia, in cui, prendendo le mosse dall’esame del bilancio e avendo rilevato una somma di L. 1.900.000 destinata ai culti «mi sono domandato: non sarebbe meglio che il nostro Governo facesse getto di questa ingerenza, economizzando cosi una cospicua somma e prevenendo il pericolo che si accresca enormemente nell’avvenire?». Da tale premessa conseguiva un corposo ragionamento sulla necessità di separare Stato e Chiesa. Nella tornata 10-11 febbraio 1865, da cui sono tratte le osservazioni qui riportate, l’onorevole Ninchi individuava nel codice unitario una matrice quasi illiberale, in contrasto con i valori risorgimentali a lungo difesi (per le citazioni cfr. I 450 deputati del presente e i deputati dell’avvenire, vol. V, Milano, 1865, n. 269, pp. 26-35).

20 AP, Discussioni, VIII Legislatura, Sessione 1863-1865, Volume X, XVI della Sessione, Continuazione del 4° periodo dal 05/01/1865 al 22/02/1865, Tornata del 10 febbraio 1865, p. 8148.

21 Ivi, Tornata del 13 febbraio 1865, p. 8185.

22 «Altro è che il marito sia capo della famiglia, altro è che il marito che è compagno della donna sia libero di disporre a suo talento dei suoi beni, di ridursi all’indigenza facendo getto delle sue sostanze senza che la moglie possa impedirnelo, mentre la donna è vincolata e non può disporre di qualunque sostanza sua perché è maritata. Tutto è concesso al marito, anche di lasciare la famiglia nella miseria, senza che la moglie possa impedirlo, fuori del caso di interdizione che entra nel diritto comune» (ivi, Tornata del 17 febbraio 1865, p. 8327).

23Ibidem.

24 Ivi, Tornata del 16 febbraio 1865, p. 8276.

25 Per Mancini, «tra i due sistemi, tra il lombardo che era larghissimo, ed al quale mi associerei [sic] di gran cuore, ed il francese, mi pare che fosse naturalmente consigliato un partito mediano», consistente nel sottoporre ad autorizzazione maritale le sole donazioni e gli acquisti a titolo gratuito (fatta salva l’ipotesi in cui fossero i figli i soggetti coinvolti). Egli rinveniva la motivazione di tale riserva nella necessità di concedere al marito la possibilità di intervenire a tutela del decoro della famiglia qualora le liberalità fossero o dettate da «turpe causa fatte a pro della moglie da un individuo che porta il disonore nella sua famiglia o prodigate dalla moglie a dispetto del marito, e forse malgrado i bisogni della sua figliolanza, in profitto di un suo adoratore» (AP, Discussioni, VIII Legislatura, Sessione 1863-1865, Volume X, XVI della Sessione, Continuazione del 4° periodo dal 05/01/1865 al 22/02/1865, Tornata del 17 febbraio 1865, p. 8316). Mancini tornò sul tema nello scritto L’autorizzazione maritale e i suoi limiti nel codice civile italiano, in Diritto e giurisprudenza, III, 1887-1888.

26 AP, Discussioni, VIII Legislatura, Sessione 1863-1865, Volume X, XVI della Sessione, Continuazione del 4° periodo dal 05/01/1865 al 22/02/1865, Tornata del 17 febbraio 1865, p. 8316. Una sorta di strisciante anti francesismo serpeggia anche nelle parole di Regnoli, il quale, orgogliosamente, richiama a fondamento della proposta di abolire l’autorizzazione maritale la tradizione romanistica, vero riferimento, insieme all’austriaca, della legislazione europea: «No, l’Italia deve seguire non solo i princìpi della libertà individuale e del rispetto della proprietà, ma deve seguire quelle fonti del diritto che sono veramente pure anche rispetto ai diritti di famiglia, quali sono il diritto romano e il diritto germanico non meno del romano attendibile» (ivi, Tornata del 17 febbraio 1865, p. 8327). E’ una delle più chiare testimonianze del passaggio da un atteggiamento anti-austriaco, in cui il pregiudizio politico era prevalso fino a travolgere una valutazione obiettiva della legislazione prodotta negli anni di dominio nei nostri territori, a un recupero di quel diritto in chiave anti–piemontese e anti–francese. Al tempo stesso era implicito riconoscimento che nel panorama europeo il codice austriaco rappresentasse l’unico valido modello alternativo al testo francese: dopo un iniziale imbarazzo nel richiamarsi al diritto di uno Stato additato a nemico dall’ideologia risorgimentale, si era riusciti a recuperarne il valore tecnico e contenutistico.

27 Dissentiva da tale ricostruzione (mero paravento per giustificare una sconsiderata decisione) Valeria Benetti-Brunelli, docente di pedagogia e impegnata nel processo della riforma scolastica: secondo la sua ricostruzione la Commissione senatoria non era riuscita a concepire la vita familiare diversamente dal diritto romano e dal mundio germanico, introducendo l’autorizzazione maritale come eccezione al principio di uguaglianza giuridica dei sessi, a cui fondamentalmente il codice si ispirava. «Peraltro mentre nel diritto romano e germanico l’istituto dell’autorizzazione maritale si presentava come una logica conseguenza dell’intero sistema giuridico», basato sull’imbecillitas sexus, «nel nostro diritto invece un tale istituto appare come una violenza della legge e un’offesa a danno della donna»: violenza dal momento che concepiva raggiunta l’armonia familiare grazie alla prepotenza dell’uomo, vòlta a soffocare ogni germe di libertà e di spontaneità nell’altro coniuge; offesa per aver negato l’esercizio di un diritto essenziale della personalità giuridica (Valeria Benetti, La donna nella legislazione italiana, Forzani e C. tipografi del Senato, Roma, 1908, p. 22).

28 «La libertà lasciata alle mogli di amministrare le loro sostanze ha fatto buona prova in Lombardia e nella Venezia in cui il Codice, che tuttavia ha vigore in quelle provincie, non stabilisce appunto alcun vincolo per la moglie alla disponibilità delle proprie sostanze. Capirei come ci fosse un’esitanza ad abbandonare il principio dell’autorizzazione maritale quando non ci fossero provincie in Italia che già ne avessero fatta un’ampia esperienza; ma già da mezzo secolo in Lombardia e nella Venezia il principio dell’autorità maritale è scomparso insieme al Codice francese, né si sono verificati gl’inconvenienti che taluni temono, quasi che colla emancipazione della donna abbiansi a veder turbati i legami della famiglia» (AP, Discussioni, VIII Legislatura, Sessione 1863-1865, Volume X, XVI della Sessione, Continuazione del 4° periodo dal 05/01/1865 al 22/02/1865, Tornata del 17 febbraio 1865, p. 8328).

29 Restelli richiamava il sentimento naturale di protezione verso i figli come baluardo contro le fumose fantasie di quanti vedevano nella ‘libertà negoziale’ il pretesto atteso dalle donne per dilapidare le proprie sostanze a danno della famiglia: «al certo una madre non ha meno affetto verso i suoi figli, non è meno sollecita della loro sorte di quello che il padre lo sia. Non ci può essere fra loro che gara affettuosa nel provvedere all’avvenire dei figli» (ibidem).

30 «Se voi rispetterete la dignità della moglie ritenendola capace di non abusare della libertà di disporre dei suoi beni, se mostrerete di aver fiducia in lei; essa ne sentirà tutta la responsabilità, essa si crederà tanto più in obbligo di ben usare nel solo interesse della famiglia delle facoltà che la legge le accorda» (ibidem).

31 Ivi, Tornata del 17 febbraio 1865, p. 8331. Dello stesso tenore le parole di Ercole Vidari, nel già ricordato saggio. A suo parere, la piena capacità della donna concessa dal codice austriaco non aveva scosso le fondamenta della società coniugale, né allentati i vincoli familiari, né affievolita la naturale deferenza della donna verso il marito, ritenendo più che rassicurante la prova data dalle leggi asburgiche nelle province italiane sottomesse all’aquila bicipite (Vidari, Studio critico, cit., p. 565).

32 AP, Discussioni, VIII Legislatura, Sessione 1863-1865, Volume X, XVI della Sessione, Continuazione del 4° periodo dal 05/01/1865 al 22/02/1865, Tornata del 17 febbraio 1865, p. 8332.

33 «Capirei che, se non ci fosse in Italia esempio d’una legislazione diversa, si fosse proceduto come si è proceduto. Mi spiace dover ricorrere ad un esempio straniero, ma tutti sappiamo che la legislazione austriaca assegna alla donna maggiori prerogative di quelle che sventuratamente loro attribuisce il Codice che ora ci si propone. Il Codice che ha avuto vigore in Lombardia per tanti anni ha potuto produrre inconvenienti, ma non credo che in complesso gli abitanti di quel paese se ne sieno trovati male» (ivi, Tornata dell’11 febbraio 1865, p. 8170).

34 Ivi, Tornata dell’11 febbraio 1865, p. 8171.

35 La commissione legislativa, istituita con i decreti 2 e 12 aprile 1865 con il compito di coordinare il codice civile (e gli altri in discussione) con le leggi dello Stato, secondo quanto disposto dalla legge 2 aprile 1865 (che accordava al governo l’autorizzazione a pubblicare il codice), si pose il problema se modificare o addirittura abrogare l’istituto, ma la maggioranza dei componenti della commissione coordinatrice si espresse a favore del suo mantenimento, ritenendo che il testo frutto dell’accordo tra Commissione del Senato e Guardasigilli fosse ormai di fatto e di diritto entrato a far parte dell’ordinamento italiano (Spalazzi, Autorizzazione, cit., pp. 455-466).

36 Nel riassumere le variegate opinioni emerse durante il dibattito alla Camera, Pisanelli concludeva che «in entrambi i rami del Parlamento fu essa [l’autorizzazione maritale] da parecchi oratori impugnata, e coteste discussioni non furono senza frutto. Ammette il Codice italiano la necessità dell’autorizzazione maritale, ma per alcuni atti soltanto tassativamente indicati (art. 134); in guisa che esso non colpisce la donna maritata di una incapacità assoluta e soggettiva, ma di una incapacità relativa e quasi oggettiva, che riguarda alcuni atti più importanti e non altri. E quantunque, ragguagliando l’art. 134 del Codice italiano all’art. 217 del Codice francese, non apparisca notevole differenza tra loro, le discussioni che hanno preceduto e accompagnato il primo di tali articoli daranno alla nuova giurisprudenza italiana un indirizzo assai diverso da quello seguito dalla giurisprudenza francese. Si arresteranno a questo punto i progressi della legislazione? Io credo che la discussione già fatta in Italia su questo importante argomento abbia scosse molte coscienze, e verrà a richiamare sopra di esso le meditazioni più accurate de’ pubblicisti» (Giuseppe Pisanelli, Dei progressi del diritto civile in Italia nel secolo XIX, Francesco Vallardi editore, Milano, 1872, pp. 79-80).

37 Riscontrava una simile contraddizione Mancini, che così ammoniva i colleghi deputati, chiamati ad esprimersi sulle scelte normative del codice unitario: «Se la donna è celibe, certamente non ha bisogno di essere autorizzata, e del pari se è vedova: essa amministra e dispone con pienissima libertà delle cose sue. Dunque la legge non sospetta infermità di giudizio nella donna, non le fa questo torto; provvede soltanto, quando si tratti di donna maritata, a mantenere una specie di gerarchia e disciplina domestica, e null’altro. Ma non son palesi i pericoli di questa soverchia ingerenza del marito, che ha per effetto di renderlo padrone e dispositore anche della fortuna particolare di sua moglie?» (AP, Discussioni, VIII Legislatura, Sessione 1863-1865, Volume X, XVI della Sessione, Continuazione del 4° periodo dal 05/01/1865 al 22/02/1865, Tornata del 17 febbraio 1865, p. 8316-8317).

38 Furono diverse le tappe di avvicinamento alla cd. legge Sacchi che determinò l’abrogazione. La prima può esser considerata la proposta di Salvatore Morelli, depositata alla Camera il 18 giugno 1867 (X legislatura del regno, proposta n. 25) dal provocatorio titolo Per lo scopo di abolire la schiavitù domestica con la reintegrazione giuridica della donna, accordando alle donne italiane i diritti civili e politici che si esercitano dagli altri cittadini del Regno; l’istanza non fu nemmeno ammessa alla lettura. In un passo, Morelli si chiedeva, tra l’altro: «Se l’umanità ha lavato con torrenti di sangue nell’ultima guerra americana l’obbrobrio della schiavitù dei neri, come può ella mai consentire più a lungo la schiavitù della donna, la quale è la più importante varietà dell’essere umano, anzi è la creatrice, la educatrice ed il movente perpetuo di quest’essere? Come può consentire che colei che deve riscuotere maggiore rispetto nella casa e nella società, rimanga destituita dei diritti civili e politici accordati a coloro che ne riconoscono la supremazia e la chiamano con il nome di donna, signora? Come può consentire che si neghino a lei causa le prerogative accordate dalle leggi all’uomo, effetto della sua contemplazione creativa?» (Camera dei deputati, sessione 1867, Proposta di legge presentata dal deputato Morelli Salvatore nella tornata del 18 giugno 1867, doc. n. 25. Per consultare il manoscritto http://archivio.camera.it/patrimonio/archivio_della_camera_regia_1848_1943/are01o/documento/CD1100023381. La proposta si trova pubblicata anche in Salvatore Morelli, I tre disegni di legge sulla emancipazione della donna, riforma della pubblica istruzione e circoscrizione legale del culto cattolico nella chiesa, Tip. Franco-italiana, Firenze, 1867, p. 25). Si pensi poi, all’intervento alla Camera del deputato modenese Carlo Gallini del 19 febbraio 1910, con cui si chiedeva di cancellare quella «macchia deturpatrice» che tanto «dissidio e dolore» aveva portato nella famiglie (AP, Discussioni, XXIII Legislatura, Sessione 1909-1910, Volume IV, I Sessione dal 18/11/1909 al 23/02/1910, Tornata del 19 febbraio 1910, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1910, p. 5177). Meno radicale, ma in linea con l’abolizione dell’istituto, la perorazione al Senato di Vittorio Scialoja del 20 dicembre 1912, in cui tuttavia si insinuavano forme di compressione dell’iniziativa imprenditoriale della donna, dal momento che si ammetteva che il marito potesse negare alla moglie l’esercizio di un’attività commerciale: AP, Discussioni del Senato del Regno, XXIII Legislatura, Sessione 1909-1912, Tornata del 20 dicembre 1912, Tipografia del Senato, Roma, 1912, pp. 9754-9758. Cfr. anche Vittorio Scialoja, Per l’abolizione dell’autorizzazione maritale (1910), rist. in Studi giuridici, III, 1, Anonima Romana Editoriale, Roma, 1932, pp. 132-136. Sottolinea l’importanza di questo progetto Paolo Ungari e non solo per «l’altissima autorità del proponente», ma anche perché era «tra i rarissimi proposti in Senato» (Ungari, Storia, cit., p. 193).

39 Anna Rossi-Doria, Diventare cittadine. Il voto alle donne in Italia, Giunti, Firenze, 1996, p. 76. Si aggiunge che, «mentre la partecipazione alla politica locale era costruita sull’essere possidenti e contribuenti, su elementi cioè che alcune donne potevano detenere, la partecipazione politica oltre che su censo e istruzione, si basava sul pieno godimento dei diritti civili, di cui le donne erano prive» (Giulia Galeotti, Storia del voto alle donne in Italia. Alle radici del difficile rapporto tra donne e politica, Biblink editori, Roma, 2006, p. 22).

40 Rossi-Doria, Diventare cittadine, cit., p. 76.

41 Cfr. Mariapia Bigaran, Progetti e dibattiti parlamentari sul suffragio femminile da Peruzzi a Giolitti, in Rivista di storia contemporanea, 14 (1985), n. 1, pp. 50-82: Ead., Il voto alle donne in Italia dal 1912 al fascismo, in Rivista di storia contemporanea,16 (1987), n. 1, pp. 240-265.

42 Vi si legge tra l’altro: «Le sottoscritte, Cittadine Italiane, fanno al Parlamento rispettosa istanza, affinché nella compilazione del nuovo Codice civile italiano, alle donne di tutte le provincie vengano estesi i diritti riconosciuti fino ad oggi nelle donne Lombarde» (Raccolte storiche del Comune di Milano, Raccolta Bertarelli, busta 212).

43 Rossi-Doria, Diventare cittadine, cit., p. 77.

44 Art. 13: «Le donne, della cui contribuzione non si tenga conto al marito in virtù dell’articolo precedente, ed i corpi morali possono delegare la rappresentanza del loro censo elettorale» (Atti del Parlamento, Documenti, VIII legislatura, Sessione dal 18 febbraio al 23 luglio 1861, Tipografia Eredi Botta, Torino, 1861, p. 41).

45 Art. 17: «Non sono né elettori, né eleggibili: Le donne, gli interdetti o provvisti di consulente giudiziario, salvo il disposto dagli articoli 12 e 15; Coloro che sono in istato di fallimento dichiarato o che hanno fatto cessione di beni, finché non abbiano pagato intieramente i creditori; Quelli che furono condannati a pene criminali, se non ottennero la riabilitazione; I condannati a pene correzionali od a particolari interdizioni, mentre le subiscono; E finalmente i condannati per furto, frode od attentato ai costumi» (ibidem).

46 «Non sono elettori, né eleggibili gli analfabeti, quando resti nel comune un numero di elettori doppio di quello dei consiglieri; le donne, gl’interdetti, o provvisti di consulente giudiziario; coloro che sono in istato di fallimento dichiarato, o che abbiano fatto cessione dei beni, finché non abbiano pagati intieramente i creditori; quelli che furono condannati a pene criminali, se non ottennero la riabilitazione; i condannati a pene correzionali od a particolari interdizioni, mentre le scontano; finalmente i condannati per furto, frode o attentato ai costumi» (art. 26 della Legge per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia del 20 marzo 1865, n. 2248). L’art. era l’esatta riproposizione di quanto a suo tempo stabilito dall’art. 23 dell’ordinamento comunale e provinciale del 23 ottobre 1859, noto anche come decreto Rattazzi (Legge 23 ottobre 1859, n. 3702 sull’ ordinamento comunale e provinciale, in Raccolta degli atti del Governo di Sua Maestà il Re di Sardegna, Vol. XVIII, pt. 2, Torino, 1859, p. 1409).

47 Dal momento che il comune deve intendersi come «un’associazione di contribuenti i cui diritti si esercitano principalmente deliberando nelle spese», era conseguente che «il diritto di frammettersi nella sua amministrazione partecipando all’elezione dei consiglieri sia conceduto o a tutti i contribuenti od a coloro che contribuiscono in una certa proporzione. Perciò l’eccezione che si oppone alle donne allorquando si tratti di elezioni politiche, non è più fondata egualmente allorquando si tratti di elezioni comunali» (Relazione della Commissione della Camera dei Deputati sulla proposta di riforma della legge del 1859 presentata dal Ministro dell'Interno, Peruzzi, relatore della Commissione il deputato Buoncompagni [Relazione Boncompagni], Tornata 20 giugno 1863, in La nuova legge comunale e provinciale del Regno d’Italia, Torino, 1865, allegato III, § XXIII, p. 376).

48 Relazione che precede la proposta di riforma alla legge comunale e provinciale del 1859 presentata dal Ministro dello Interno, Peruzzi, alla Camera dei Deputati nella tornata del 5 marzo 1863, allegato II, § II, pp. 365-366 e Relazione Boncompagni, cit., allegato III, §§ XXII e XXIII, p. 376.

49 Questi nel 1871, divenuto presidente del Consiglio, ripresentò il ‘modello’ Peruzzi, riproducendone quasi le argomentazioni e ammettendo il voto amministrativo alle donne tramite scheda trasmessa al sindaco, in busta sigillata, su cui l’elettrice avrebbe apposto la firma autenticata da un notaio o dal sindaco, con evidente interferenza con la tutela della segretezza del voto (Relazione del Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Giovanni Lanza sul progetto di legge “Modificazioni alla legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865”, n. 18 bis, in Atti Parlamentari della Camera dei Deputati, Legislatura IX, Sessione 1871-1872, Raccolta dei documenti stampati per ordine della Camera, I, Tipografia Eredi Botta, Torino, 1865, p. 4).

50 Cfr. Maria Antonella Cocchiara, Donne e cittadinanza politica: una prospettiva storica, in Donne, politica e istituzioni: percorsi, esperienze e idee, Aracne, Roma, 2009, pp. 94-96.

51 Merita di essere segnalato il progetto presentato nella tornata del 7 dicembre 1876 dal ministro dell’Interno Giovanni Nicotera con il conforto della Commissione istituita il 30 aprile di quello stesso anno sotto la presidenza di Peruzzi, il cui compito era di studiare e proporre le riforme più convenienti da apportare al progetto del ministro. La commissione affermava che le amministrazioni comunali avessero la missione di prendersi cura degli interessi collettivi dei contribuenti e sulla base di questo presupposto considerava doveroso attribuire alle donne il diritto di eleggere i consiglieri comunali e provinciali. Il progetto, sottoposto poi al vaglio di una commissione parlamentare presieduta da Benedetto Cairoli, suscitò polemiche e contrasti in seno alla commissione stessa e non approdò alla discussione in aula (Cocchiara, Donne e cittadinanza, cit., pp. 97-98).

52 Si sottolineava a sostegno di un rifiuto «lo stato di depressione morale e intellettuale della popolazione muliebre italiana; occupiamoci perciò dapprima ad emancipar la donna nell’ordine intellettivo, ad educarla, ad istruirla, con diversi sistemi però da quelli ora in uso, a darle insomma altra posizione nella vita, ed allora le si potrà accordare eziandio il godimento de’ diritti politici» (Johann Caspar Bluntschli, Diritto pubblico universale, trad. italiana di Giuseppe Torno, vol. II, Stabilimento tipografico di De Angeli e figlio, Napoli, 1875, p. 505).

53 V. nt. 38.

54 Non mancava tuttavia nell’art. 4 un sussulto di passato e un presagio di futuro quando si sanciva che «le donne italiane, che si mostreranno più diligenti al miglioramento della razza umana, dando alla patria figlioli di belli e robusti tipi, e li educheranno in modo da farli divenire eroi, pensatori e produttori distinti, avranno conferiti dallo Stato titoli di onore, pubblici uffici, ed anche pensioni vitalizie, secondo il maggior bene che hanno arrecato colla loro opera»: toni retorici e modalità espressive che saranno dagli anni Venti in poi il fulcro della predicazione fascista.

55 Così lo definiva Zanardelli nella tornata del 10 giugno 1881 (AP, Discussioni, XIV Legislatura, Sessione 1880-1881, Volume VI, I Sessione dal 28/04/1881 al 16/06/1881, Tipografia Eredi Botta, Roma, 1881, p. 5977).

56 Relazione della Commissione per la Riforma elettorale redatta dall’on. Giuseppe Zanardelli, in Atti parlamentari, Legislatura XIV, 1a sessione 1880, vol. 1, Documento 38-A, pp. 30-35, pubblicata in Il voto alle donne. Le donne dall’elettorato alla partecipazione politica, Camera dei Deputati, Roma, 1965, pp. 101-107 e in Donne alle urne. La conquista del voto. Documenti 1864-1946, a cura di Marina d’Amelia, Biblinik editori, Roma, 2006, pp. 33-40.

57 AP, Discussioni, XIV Legislatura, Sessione 1880-1881, Volume V, I Sessione dal 24/02/1880 al 09/04/1881, Tornata del 4 aprile 1881, Tipografia Eredi Botta, Roma, 1881, pp. 5035-5036.

58 AP, Discussioni, XIV Legislatura, Sessione 1880-1881, Volume VI, I Sessione dal 28/04/1881 al 16/06/1881, Tornata del 3 maggio 1881, Tipografia Eredi Botta, Roma, 1881, p. 5274.

59 Ivi, Tornata del 5 maggio 1881, p. 5339.

60 Ibidem.

61 Nella seduta dell’8 giugno 1881 il presidente della Camera, il militare di lungo corso e pluridecorato Domenico Farini, ricordava che la legge era stata discussa per ben 22 sedute «interpolatamente» e si erano uditi ben 52 oratori per giungere a un nulla di fatto (ivi, Tornata dell’8 giugno 1881, p. 5917). Anche Michele Coppino, in qualità di relatore, sottolineava come le discussioni si fossero protratte «oltre ogni prevedibile misura; si tratta di una legge la quale, per la sua gravità e per la sua natura, non potrebbe rimanere più a lungo in sospeso, perché, dopo sì lunga aspettativa, il ritardo parrebbe quasi un diniego di giustizia per l’esercizio del più sacro dei diritti che lo Stato affida ai cittadini» (ivi, p. 5918).

62 La proposta prevedeva molteplici requisiti tra loro alternativi ed estremamente articolati, suddivisibili grosso modo tra criteri di ‘qualità’ e di censo. Oltre a godere, per nascita o per origine, dei diritti civili e politici del regno, aver compiuto 21 anni, saper leggere e scrivere, occorreva possedere una delle qualità rimesse alla determinazione degli artt. 2 e 3. Il primo prevedeva gradi di istruzione in ordine decrescente (dall’essere membri di accademie di scienze, lettere ed arti da almeno 10 anni al superamento dell’esame della quarta classe elementare nelle scuole pubbliche), mentre all’art. 3 era rimessa la disciplina degli elementi ‘economici’ tra i quali campeggiava il pagare un’imposta netta annua non minore di lire 19,80.

63 Così l’avvocato calabrese Bruno Chimirri, che nella tornata del 10 giugno 1881 rilevava la contraddittorietà di una proposta che da un lato per individuare l’elettorato politico faceva leva sul possesso delle cognizioni prescritte nel programma della scuola elementare obbligatoria istituita con la legge del 15 luglio 1877 proprio da Coppino (un’istruzione che Chimirri non esitava a definire «rudimentale e imperfetta», così come giudicava la legge stessa «una promessa, un tentativo, un embrione», in particolare per aver lasciato a carico dei comuni le spese di gestione, rendendone problematica l’attuazione e per un vituperato art. 9 in cui se ne prevedeva un’entrata in vigore graduale in seguito al raggiungimento di alcune condizioni, quali la presenza di un insegnante di grado inferiore per ogni 1000 abitanti nei comuni con popolazione al di sotto dei 5000 cittadini; uno ogni 120 nei comuni con popolazione tra 5.000 e 20.000; uno ogni 150 nei comuni maggiori); dall’altro invece escludeva le donne in ragione del mero sesso. In questo modo, ammoniva il Nostro, «se questa legge è obbligatoria ugualmente pei fanciulli di entrambi i sessi, perché mai consentite l’elettorato agli uomini e lo niegate alle donne? […]. Quando fate consistere la capacità, quando ponete come condizione all’esercizio del voto la prova di aver frequentato la scuola obbligatoria, ove quelle nozioni mal s’insegnano e peggio si apprendono, se a quelle scuole sono obbligati di accedere i fanciulli d’ambo i sessi, se l’istruzione che vi s’impartisce è la stessa per gli uomini come per le donne, se gli uni e le altre raggiungono lo stesso grado di coltura, perché mai questo grado di coltura servirà di titolo al fanciullo, divenuto adulto, per conseguire l’elettorato e non basterà alle donne?». L’intervento di Chimirri in realtà mirava soprattutto a muovere serrate critiche alla legge Coppino (che aveva introdotto per la prima volta in Italia l’obbligo dell’istruzione elementare gratuita per i fanciulli e le fanciulle di età tra i sei e i nove anni) e al presupposto che bastasse saper leggere e scrivere per essere elettori. Il suffragio femminile era sventolato più che altro come uno spauracchio, a dimostrazione dell’inevitabile conseguenza di aver posto a fondamento del diritto di voto un’istruzione di base ideata da una riforma scolastica definita angusta, meschina e rudimentale. «Adottando il criterio scolastico, voi siete logicamente condotti ad accordare il voto politico alle donne! Escludendole vi mostrate ingiusti verso un milione e mezzo di cittadine, che han frequentate le scuole pubbliche, che sanno leggere e scrivere e posseggono cognizioni talvolta di gran lunga superiori a quelle dei vostri elettori a base di seconda elementare» (AP, Discussioni, XIV Legislatura, Sessione 1880-1881, Volume VI, I Sessione dal 28/04/1881 al 16/06/1881, Tornata del 10 giugno 1881, Tipografia Eredi Botta, Roma, 1881, pp. 5958-5959).

64 Romualdo Cerilli sosteneva che la donna non sarebbe stata dimentica dei propri doveri di madre solo per il fatto di essere elettrice (a meno di non ammettere che lo stesso avveniva per gli uomini, così assorbiti dagli uffici elettorali da ignorare tutti gli altri doveri). Egli aggiungeva che, d’altronde, esistevano altre distrazioni meno nobili nella vita delle donne: «certe madri che trovano quotidianamente tanto tempo per occuparsi della moda, dei divertimenti e d’altre cose meno utili, non troveranno, compatibilmente coi doveri domestici, l’agio di pensare, nell’intervallo di qualche anno, anche agli interessi del paese, che sono pure i loro?» (Romualdo Cerilli, Studio del diritto di suffragio in rapporto alla questione, Unione Tipografico Editrice, Torino, 1900, pp. 44-45, ma di interesse è l’intero volume). Attenta analisi anche in Enrico Scapinelli, La donna e il voto amministrativo, Fratelli Bernardi, Piacenza, 1892.

65 Era questa la tesi dell’avvocato milanese Giacomo Bizzozero (AP, Discussioni, XIV Legislatura, Sessione 1880-1881, Volume VI, I Sessione dal 28/04/1881 al 16/06/1881, Tornata del 13 giugno 1881, Tipografia Eredi Botta, Roma, 1881, pp. 6040-6041).

66 «Chi vorrebbe che la legge comprendesse nell’elettorato tutti i maggiorenni, uomini e donne […]. Chi nega il suffragio alla donna, ma lo attribuisce a tutti i maschi maggiorenni, se anche analfabeti. Chi pei maschi maggiorenni esige la condizione di saper leggere e scrivere. Altri, con tenue differenza dalla condizione del saper leggere e scrivere, nell’intento di rendere tale condizione reale ed effettiva, sostengono che debba porsi a base dell’elettorato l’istruzione obbligatoria. Altri richiede di più, cioè il compimento della istruzione elementare di grado superiore, vale a dire della quarta classe elementare. Altri infine, non si accontenta neppure dell’istruzione elementare completa, ma vuole almeno la licenza ginnasiale, tecnica, magistrale, o professionale […]. Avvi invece chi vuole ridotto il censo a lire 10 d’imposta governativa […]. Avvi infine chi prescindendo dalla condizione del saper leggere e scrivere, fonda l’elettorato sul pagamento di una imposta qualsiasi, anche di un solo centesimo» (Ivi, Tornata del 10 giugno 1881, pp. 5974-5975).

67 Ivi, p. 5974.

68 Ivi, Tornata del 14 giugno 1881, p. 6075.

69 Ivi, p. 6086.

70 Ivi, p. 6093.

71 Ivi, pp. 6080-6081.

72 La legge venne approvata come nel testo del progetto originale con un’unica variante: al voto partecipavano quanti al compimento del ventunesimo anno di età godessero dei diritti politici e civili, sapessero leggere e scrivere e avessero sostenuto con buon esito l’esperimento sulle materie comprese nel corso elementare obbligatorio (seconda elementare), a meno che non vantassero titoli di studio o qualifiche professionali più elevate, o dimostrassero di soddisfare parametri di censo fissati dalla legge. La base elettorale si era ampliata. Osserva infatti Giorgio Candeloro: «rispetto alla precedente legge elettorale la nuova legge abbassava dunque il limite d’età da 25 a 21 anni, poneva come requisito essenziale la capacità e non il censo, abbassava il censo, lasciato come alternativa all’esame di II elementare, da 40 lire a 19,80. Pertanto gli elettori che nelle elezioni del maggio 1880 erano stati 621.896, pari al 2,2% della popolazione totale del regno, passarono a 2.017.829, pari al 6,9% della popolazione totale, nelle elezioni dell’ottobre 1882, che furono le prime fatte in base alla nuova legge. In pratica una parte notevole della classe operaia ottenne nel 1882 il diritto di voto. D’altra parte escludendo dal voto le masse degli analfabeti, la nuova legge in linea generale favoriva le città rispetto alle campagne e il Settentrione rispetto al Mezzogiorno» (Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia Moderna, VI, 1871-1896, Feltrinelli, Milano, 1970, p. 152).

73 In realtà la legge elettorale del 1882 non prevedeva espressamente l’esclusione delle donne «tanto pacifica e normale essa doveva apparire agli occhi del legislatore» (Cocchiara, Donne e cittadinanza politica, cit., p. 100).

74 «Bastò che il solo Crispi esprimesse una diversa interpretazione della legge elettorale, perché il Parlamento – come una folla qualunque – perdesse di vista tutti i ragionamenti che l’avevano persuaso – e tutte quelle convinzioni svanissero come polvere innalzata dal passaggio di una corriera». Così nella Petizione presentata dal Comitato nazionale pro suffragio femminile nel marzo 1906, in Il voto alle donne, cit., p. 109.

75 Dichiarandosi incaricato di presentare la posizione dell’estrema sinistra, preoccupato che l’Italia stesse cercando «da circa 40 anni, e attraverso 19 disegni di legge un vero e proprio assetto amministrativo», Marcora, favorevole ad un’estensione della base elettorale, giustificava la concessione del voto alle donne sulla base di una impossibilità di differenziare tra maschio e femmina perché «di fronte al diritto e alla legge non vi può essere che l’essere umano manifestato nell’uomo e nella donna». Meravigliato che «l’onorevole Crispi, sempre così elevato nei suoi concetti e che non può non ricordare la parte importantissima che la donna ha avuto nella storia del patriottismo italiano», l’avesse invece esclusa, il parlamentare milanese ricordava come «per alcune provincie dello Stato, per la Lombardia in particolare, poi, l’esclusione è una deminutio capitis perché le leggi austriache stesse concedevano il voto alle donne censite». Al ribadito timore di influenze clericali sulla donna in ragione di un più vivo sentimento religioso in lei presente Marcora replicava: «ma, insomma, la democrazia che cosa vuole? Non è forse la separazione della donna dalla vita politica della famiglia quella che ve la gitta fuori? Accomuniamo il sentimento della donna al sentimento patriottico della famiglia e l’avremo cooperatrice convinta. Non farlo, significa fare una riforma per metà» (AP, Discussioni, XVI Legislatura, Sessione 1887-1888, Volume IV, II Sessione dal 18/06/1888 al 19/07/1888, Tornata del 7 luglio 1888, Tipografia della Camera dei Deputati, Roma, 1888, p. 4509).

76 Peruzzi, ricordando il proprio impegno a favore del suffragio femminile nelle passate legislature e forte dell’esperienza toscana testata di persona, ribadiva la necessità di estendere il voto solo amministrativo alle donne (e per questo aveva presentato apposito emendamento), mostrando per quello politico ancora un atteggiamento di chiusura (ivi, Tornata del 13 luglio 1888, pp. 4720-4722).

77 Gli emendamenti di Peruzzi e Pantano a favore del suffragio universale erano state respinte, ma ciò non impedì all’on. Pantano di svolgere una puntuale argomentazione sul valore del voto alle donne, contraddicendo tutte le più trite credenze e dimostrando, dati alla mano, il maggior grado di istruzione delle donne (dissertazione appropriata dal momento che la Camera aveva deciso di estromettere dal voto gli analfabeti e di concederlo a quanti sapessero leggere e scrivere), il loro attivo contributo al progresso economico del paese e la loro soggezione alle vessazioni fiscali imposte dal governo. «Ora, io vi domando: se voi caricate di pesi così enormi, dal punto di vista del contributo, la donna operaia […], se voi la chiamate a concorrere in sì larga misura alle spese comuni, come potete contendere ad essa il diritto di concorrere all’amministrazione di quel patrimonio di cui il suo obolo è tanta parte, anzi la parte maggiore se la si guarda non soltanto dal punto di vista aritmetico, ma eziandio dal sacrificio che questo contributo rappresenta per essa? Come potete contendere alla donna operaia, condannata a vivere nei fondaci, o in meschini tuguri, di occuparsi di questioni d’igiene nel suo paese?» (ivi, pp. 4723). Si cercava altresì di neutralizzare il temuto rischio di un assoggettamento delle donne al ‘volere’ clericale: «Se l’educazione che avete dato alla donna in Italia e la condizione di permanente inferiorità a cui l’avete condannata hanno reso possibile una certa influenza del clero sopra una parte dell’elemento femminile italiano la colpa è soltanto dello Stato che, trascurandolo completamente, ha lasciato che la Chiesa soltanto facesse a queste reiette dai civili uffici una posizione nella società con l’intendimento di servirsene pe' suoi interessi. Ora, non è lasciandola cura precipua alle carezze della Chiesa e in balìa della influenza incontrastata di quest’ultima che noi ne faremo un elemento di civiltà e di progresso; ma sibbene richiamandola ai suoi veri uffici nella famiglia e nella società facendo della donna italiana un elemento fecondo di vita e di sviluppo nazionale» (ivi, p. 4724).

78 Ferrari, dedito alla scultura monumentale celebrativa e destinato dal 1904 a divenire gran maestro della Massoneria italiana a cui si era avvicinato proprio intorno agli anni ’80 dell’Ottocento, in via subordinata chiedeva ai colleghi deputati, qualora fossero stati respinti gli emendamenti vòlti a concedere il voto alle donne in possesso dei requisiti richiesti all’elettorato maschile secondo il progetto di legge, di riservare questo diritto almeno a una piccola porzione dell’universo femminile, ossia alle maestre di scuole elementari, d’istituti secondari o superiori, alle laureate e a quelle che occupavano qualche posto negli uffici dello Stato. «L’accordare il suffragio elettorale alla donna non è una concessione: è riconoscere i suoi diritti», affermava Ferrari, richiedendo di adottare almeno una “politica dei piccoli passi” se la partecipazione delle donne alle elezioni provocava un così eccessivo timore (ivi, p. 4725).

79 Al tema Luchini aveva dedicato anche una monografia, Il problema dei diritti della donna specialmente in Inghilterra e in America, Sansoni, Firenze, 1877, in cui l’autore si lasciava sfuggire che nell’uomo erano prevalenti le facoltà attive, nelle donne quelle passive dello spirito, come la pietà e la simpatia, e per questo esse erano subordinate più ai sentimenti che all’imperativo della ragione; mentre l’uomo, aggiungeva Luchini, era per natura dedito all’ignoto, alla conquista, alla lotta, la donna meglio si spendeva nella vita casalinga (ivi, pp. 105-106). Rilevava la contraddittorietà di tale ragionamento Carlo Francesco Gabba, il quale, nella sua acuta disamina (anche bibliografica) della condizione giuridica della donna, non mancava di rilevare come Luchini, pur desiderandola elettrice, non ne volesse l’eleggibilità in Parlamento, scindendo così il diritto politico in due parti «senza troppo investigare se questa scissione sia ragionevole, applicata ad un intiero sesso, non già da un punto di vista astratto, ma da quello dei fondamenti assegnati a quel diritto» (Carlo Francesca Gabba, Della condizione giuridica delle donne. Studi e confronti, Unione Tipografico Editrice, Torino, 1880, p. 291).

80 Tra il serio e il faceto Toscanelli poneva l’attenzione sull’eccessivo dirigismo di Crispi, capace di condizionare i lavori della commissione a tal punto da indurla a cadere in contraddizione: infatti, dopo aver dichiarato nella relazione di non essere contraria in via di principio alla concessione del voto alle donne, la commissione ammetteva candidamente di dover seguire il diktat di Crispi il quale invocava i costumi dell’Italia per negare il diritto stesso. «Una Commissione, tanto autorevole, che dichiara che non ha volontà e che segue soltanto la volontà del ministro, e fa una confessione così ingenua, che si può pensare, ma non dirla, è proprio una enormità in fatto di cose ingenue». L’intervento si concludeva con un ironico monito rivolto a Crispi: «urtare le donne italiane, onorevole presidente del Consiglio, è una immensa imprudenza politica! Prima di aggiungere agli uomini, che sono contrari alla sua politica, l’unanimità delle donne, le quali diranno: in tutti i paesi, noi, quando possediamo, abbiamo diritto di votare, ma non lo abbiamo codesto diritto in Italia, perché il presidente del Consiglio ci ha detto che non siamo educate; prima di far questo, onorevole presidente del Consiglio, ci pensi bene; è nel suo interesse, che io la consiglio di accogliere l’emendamento, che è stato or ora proposto!» (ivi, p. 4728).

81 Cognato di Ubaldino Peruzzi, che ne aveva sposato la sorella, Toscanelli fu uomo indipendente e spregiudicato, fino ad apparire contraddittorio, per la mancanza, nei suoi 30 anni di attività parlamentare, di una linea politica coerente e di obbedienza a schieramenti precostituiti. Egli fu avversario di quasi tutti gli uomini di governo del tempo, compreso Crispi, «“l’uomo dei colpi di testa”, per il suo modo autoritario e personale di governare solo mediante decreto-legge, che ha screditato le istituzioni parlamentari italiane e che ha trasformato i ministri in “direttori generali” e i prefetti in “balocchi” del ministro dell’interno» (Danilo Barsanti, Giuseppe Toscanelli “Er deputato de’ Pontaderesi, Edizioni Ets, Firenze, 2013, p. 12).

82 Con tono irridente il Presidente del consiglio proseguiva: «finché marito e moglie sono d’accordo, e la moglie cede ai suggerimenti del marito per obbedienza, perché la legge così le comanda, la pace può non esser turbata; ma mettiamo il caso che, in una famiglia, il marito parteggi per l’onorevole Peruzzi, e la moglie per l’onorevole Pantano, e che si discuta sul candidato da far trionfare; non vedete, o signori, che mettereste la guerra là dove è necessaria la pace, la tranquillità?» (AP, Discussioni, XVI Legislatura, Sessione 1887-1888, Volume IV, II Sessione dal 18/06/1888 al 19/07/1888, Tornata del 13 luglio 1888, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1888, p. 4729).

83 Così l’avvocato molisano Enrico Fazio, che accusava di superficialità il discorso di Crispi, inefficace nell’addurre ragioni valide contro il suffragio femminile: «non è decoro per la Camera lo strozzare questa discussione e chiudere la bocca a tanti oratori, che han domandato di parlare. Sarebbe un trattar le più ardue questioni nostre con molta leggerezza e con grande discapito della nostra dignità e della serietà del Parlamento» (ivi, pp. 4730-4731).

84 Annamaria Galoppini, Il lungo viaggio verso la parità. I diritti civili e politici delle donne dall’unità ad oggi, Zanichelli, Bologna, 1980, pp. 56-58; Giuditta Brunelli, «Foemina ab omnibus officiis civilibus et publicis remotae sunt» ovvero: l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica nello Stato liberale italiano, in Per il 70. compleanno di Pierpaolo Zamorani. Scritti offerti dagli amici e dai colleghi di facoltà, Giuffrè, Milano, 2009, pp. 31-35.

85 «Per essere elettore è richiesto il concorso delle seguenti condizioni: 1. Di godere, per nascita o per origine, dei diritti civili e politici del Regno. Quelli che, né per l’uno, né per l’altro degli accennati titoli, appartengono al Regno, se tuttavia italiani, partecipano anch’essi alla qualità di elettori, ove abbiano ottenuta la naturalità per decreto reale, e prestato giuramento di fedeltà al Re. I non italiani possono entrare nel novero degli elettori, solo ottenendo la naturalità per legge; 2. Di aver compiuto il ventunesimo anno d’età; 3. Di saper leggere e scrivere; 4. Di avere uno degli altri requisiti determinati negli articoli seguenti» (art. 1 Regio Decreto che approva il testo unico della legge elettorale politica, 28 marzo 1895, n. 83, in Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, vol. I, Stamperia reale, Roma, 1895, pp. 497-498).

86 Fu una giovane Maria Montessori, marchigiana di Chiaravalle e insigne pedagogista del suo tempo, a lanciare nel 1906 dalle pagine del giornale La vita l’invito alle donne ad iscriversi alle liste elettorali. L’appello si trasformò in un manifesto affisso clandestinamente sui muri di Roma, come ricorda Irene Cecchi, L’evoluzione della condizione giuridica della donna dall’Unità alla nuova Carta Costituzionale; in particolare le conseguenze giuridico-sociali del diritto di voto, Camera dei Deputati, Roma, 2006, p. 31. Forse fu questa la spinta che indusse le donne (e in particolare dieci maestre corregionali della Montessori) a trovare il coraggio di uscire allo scoperto.

87 Alberto Marghieri commentava la decisione di alcune donne di iscriversi nelle liste elettorali come un grosso abbaglio, frutto di decisioni affrettate (Alberto Marghieri, Il diritto di voto alle donne, Tip. Dell’Unione cooperativa editrice, Roma, 1906, p. 5).

88 Sulle giustificazioni addotte dalle diverse Corti per negare il voto femminile cfr. Brunelli, «Foemina», cit., pp. 50-51 e relative note; Luigi Lacchè, “Personalmente contrario, giuridicamente favorevole”. La “sentenza Mortara” e il voto politico alle donne (25 luglio 1906), in Donne e diritti, cit., pp. 124-127. Marghieri benediceva il rifiuto delle corti di assecondare il volere delle donne, gettando «un po’ di acqua diaccia sul fuoco divampato con tanto ardore, e speriamo che le signore saranno per convincersi che esse, soltanto da una legge nuova, possono attendere di essere ammesse al voto, mentre che, da quella presente in vigore, nulla hanno da ripromettersi» (Marghieri, Il diritto di voto, cit., p. 5).

89 Corte di appello di Ancona, 25 luglio 1906, in Giurisprudenza italiana, LVIII (1906), III, coll. 389-394. La sentenza si trova pubblicata anche in Il voto alle donne, cit., pp. 101-107; Donne e diritti. Dalla sentenza Mortara del 1906 alla prima avvocata italiana, a cura di Nicola Sbano, il Mulino, Bologna, 2004, pp. 207-213; Donne alle urne, cit., pp. 80-87. Nel Foro italiano la sentenza fu pubblicata con nota critica di uno sbalordito Vittorio Emanuele Orlando, il quale imputava le scelte delle commissioni provinciali al mero desiderio di tener viva la questione politica del suffragio femminile, ma «che nel campo del diritto positivo una questione potesse farsi nessuno credeva. Senonché ora la situazione muta bruscamente» in ragione della pronuncia della corte anconetana e per «l’altissimo valore dell’estensore, giustamente stimato come uno dei più forti giuristi dell’Italia contemporanea» [Foro italiano, XXXI (1906), col. 1060].

90 Mortara espresse le sue private convinzioni pochi giorno dopo l’emanazione della sentenza, in un’intervista rilasciata a Il Giornale d’Italia del 1° agosto 1906, da cui appare evidente la scissione tra l’intima convinzione e il ruolo di giurista, («chiamato come magistrato a decidere la questione, mi son dovuto spogliare di ogni prevenzione personale per esaminare serenamente il testo di legge»). Mortara confessava di ritenere del tutto impreparate le donne italiane a questa funzione, senza tuttavia precisare che l’impreparazione nasceva da secoli di ‘non abitudine’ e che una simile motivazione, portata all’estremo, avrebbe determinato una perpetua negazione del diritto di voto. Come potevano le donne prepararsi se non attraverso l’esercizio effettivo? L’intervista a Mortara, Il voto politico alle donne, è riprodotta in Marco Severini, Dieci donne. Storia delle prime elettrici italiane, Liberilibri, Macerata, 2012, pp. 203-209.

91 Una ricostruzione dettagliata della vicenda che condusse alla pronuncia di Mortara, nonché del profilo delle dieci maestre promotrici dell’iniziativa, si trova in Marco Severini, Il voto negato. La battaglia isolata di dieci maestre marchigiane, in Donne e diritti, cit., pp. 65-97, in particolare pp. 75-86; Id., Dieci donne, cit., passim.

92 Questo elemento integrava quanto richiesto dal punto 4 dell’art. 1 della legge del 1895, dal momento che l’art. 2 del predetto testo unico considerava elettori coloro che, in aggiunta alle condizioni richieste ai nn. 1-3 dell’art. 1, provavano di aver sostenuto con buon esito l’esperimento prescritto dalla legge e dal regolamento sulle materie comprese nel corso elementare obbligatorio. Era dispensato da tale prova un elenco nutrito di soggetti, tra i quali i professori e i maestri di qualunque grado «patentati o semplicemente abilitati all’insegnamento in scuole o istituti pubblici o privati». Si spiega così la precisazione della commissione provinciale con riferimento alle richiedenti, necessaria per dimostrare il possesso di tutte le qualità imposte dalla legge (art. 2, n. 2 Regio decreto […] 28 marzo 1895, cit., p. 498).

93 Nel ricorso ci si richiamava anche alla «presunta inconciliabilità tra le doti tipicamente femminili e i forti doveri dell’impegno politico», un leitmotiv che accompagnava pretestuosamente i costanti rifiuti di accogliere le richiesta di estensione del voto (Severini, Il voto negato, cit., p. 77).

94 Corte di appello di Ancona, 25 luglio 1906, cit., col. 390.

95 Ibidem.

96 Lacchè, “Personalmente contrario, giuridicamente favorevole”, cit., pp. 127-132.

97 Corte di appello di Ancona, 25 luglio 1906, cit., coll. 390-391. Cfr. “Personalmente contrario, giuridicamente favorevole”, cit., pp. 132-137.

98 Nuovo testo unico della legge comunale e provinciale andata in vigore con R. decreto del 4 maggio 1898, Società Editrice Dante Alighieri, Roma, 1898, pp. 16-17.

99 Corte di appello di Ancona, 25 luglio 1906, cit., coll. 393-393. Cfr. Lacchè, “Personalmente contrario, giuridicamente favorevole”, cit., pp. 137-145.

100 Alcuni studiosi evidenziano come la terminologia fosse volutamente equivoca per lasciare alla libera interpretazione dei parlamenti e dei governi la decisione se riconoscere o meno alle donne i diritti politici (così, ad esempio, Giuditta Brunelli, Donne e politica, il Mulino, Bologna, 2006, p. 21). Per altri, invece, «l’esclusione muliebre dalla cosa pubblica era ritenuta un dato di fatto nell’ordine naturale delle cose» (Galeotti, Storia del voto, cit., p. 20). Si veda anche in questo senso Elettrici ed elette. Storia, testimonianze e riflessioni a cinquant’anni dal voto alle donne, a cura di Fiorenza Taricone, Mimma De Leo, Istituto poligrafico dello Stato, Roma, 1996, pp. 11-12.

101 Ignazio Brunelli, Il suffragio politico femminile ne’ suoi criteri giuridici, Unione Tipografico Editrice Torinese, Torino, 1910, pp. 26-31.

102 Corte di Cassazione di Roma, 12 dicembre 1906, in Foro italiano, XXXII (1907), I, coll. 73-81. Si veda ora anche in Donne e diritti, cit., pp. 185-193.

103 Cfr. Severini, Il voto negato, cit., pp. 79-81 e nt. 22.

104 «Concesso l’elettorato alle donne, come negar loro l’eleggibilità? E allora come guarentire dal ridicolo i parlamenti delle nazioni, ove si vedessero legislatori in guardinfanti, e nastri, e merletti, e ricci, e vesti ad ampia, lunga, interminabile coda?» (Luigi Palma, Del potere elettorale negli Stati liberi, E. Treves Editore, Milano, 1869, p. 212).

105 Cfr. Il voto alle donne, cit., p. 8.

106 Palma, Del potere elettorale, cit., p. 206.

107 Palma, Del potere elettorale, cit., p. 208.

108 Palma, Del potere elettorale, cit., pp. 211-212.

109 «Nella più parte il suo voto sarebbe quello del padre, del fratello, dell’amante, del marito, del figlio, e sarebbe duplicazione o complicazione poco meno che inutile; se non lo fosse, sarebbe la discordia in famiglia […]. E ai tanti brogli elettorali se ne aggiungerebbe un altro di nuovo conio, non contemplato specialmente in nessun codice, quello delle brighe femminili per far votare gli uomini pei loro candidati» (Palma, Del potere elettorale, cit., p. 212). Confessava tuttavia Palma che «queste istanze sono per verità potenti. A me non sembrano risolutive […]. La paura di farle uscire dalle famiglie per la vita pubblica sembra ancora esagerata», a meno che non si voglia far tornare la donna al fuso, alla rocca, al mulino, al telaio di Penelope (ivi, pp. 212-213).

110 Ben riassumeva questo pregiudizio Ignazio Brunelli, il quale, in risposta al presunto clericalismo di cui si ritenevano vittime le regnicole, ribatteva: «Ma se non si domanda agli uomini quali sieno le loro idee filosofiche, allorquando loro si rilascia il certificato elettorale, e a preti, a pastori protestanti, a rabbini, ed atei concedesi, perché domandarlo alle donne? E mentre gli uomini non sono spogliati dei loro diritti, per causa delle opinioni religiose che professano, perché poi le donne, in offesa al principio della libertà di coscienza e di culto, dovrebbero esserne private?» (Il suffragio politico, cit., p. 64, nt. 2).

111 La sentenza si ritrova con parti omesse in Foro italiano, XXXI (1907), coll. 911-919 ed è riprodotta integralmente in Donne e diritti,cit., pp. 195-205.

112 Severini, Il voto negato, cit. p. 83.

113 Petizione presentata dal Comitato nazionale pro suffragio femminile nel marzo 1906, cit., p. 113.

114 AP, Discussioni, XXII Legislatura, Sessione 1904-1907, Volume X, I Sessione dal 30/01/1907 al 17/03/1907, Tornata del 25 febbraio 1907, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1907, pp. 12298-12303.

115 «Premettiamo che tutte le donne (come tutti gli uomini) hanno diritto al voto, con e senza l’alfabeto, il quale se è massimo strumento di coltura, non crea però né la intelligenza, né il buon senso, né la visione cosciente dei propri interessi. Vi abbiamo diritto perché siamo cittadine, perché paghiamo tasse ed imposte, perché siamo produttrici di ricchezza, perché paghiamo l’imposta del sangue nei dolori della maternità, perché infine portiamo il contributo dell’opera e del denaro al funzionamento dello Stato» (Petizione presentata dal Comitato nazionale pro suffragio femminile nel marzo 1906, cit., p. 110).

116 In una lettera a Eugenio Fazio pubblicata su La donna del 31 luglio 1870, la Mozzoni, a riprova della sua totale indipendenza di pensiero, scevro di ogni condizionamento e influenza politico-religiosa, scriveva di sé: «Non mi ritengo appigliata a nessuna setta, a nessun sistema, a nessuna scuola. Non credo all’infallibilità del Papa, ma rinnegando questa, non sostituisco quella di Mazzini, né di nessun altro». Da Mazzini, di cui fu seguace della prima ora, ella prese via via le distanze proprio per la non condivisa ‘visione femminile’. Mazzini stesso riservava alla Mozzoni un giudizio critico, dicendo di lei: «scrive bene, è informata, un poco arida» (Lettera di Mazzini a Matilde Biggs del 16 gennaio 1865, in Edizione nazionale degli scritti editi e inediti Giuseppe Mazzini, vol. 80, Cooperativa tipografica Galeati, Imola, 1939, p. 19). «Giudizio critico che la Mozzoni sostanzialmente ricambiava, notando le incertezze, le contraddizioni e la scarsa autonomia delle donne mazziniane» (Liviana Gazzetta, Giorgina Saffi. Contributo alla storia del mazzianesimo femminile, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 18). Sterminata e quasi irriproducibile la bibliografia sulla Mozzoni (a solo titolo esemplificativo cfr. Franca Pieroboni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia 1848-1892, Einaudi, Torino, 1963; Stefania Murati, L’idea più avanzata del secolo. Anna Maria Mozzoni e il femminismo italiano, Aracne, Roma 2008 e la bibliografia ivi citata; Elisabetta Nicolaci, Il «coraggio del vostro diritto». Emancipazione e democrazia in Anna Maria Mozzoni, Centro Editoriale toscano, Firenze, 2004.

117 AP, Discussioni, XXII Legislatura, Sessione 1904-1907, Volume X, I Sessione dal 30/01/1907 al 17/03/1907, Tornata del 25 febbraio 1907, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1907, p. 12303.

118 Ivi, pp.12309-12310.

119 Ivi, p. 12313. Marghieri non mancava tuttavia di aggiungere a conclusione del proprio intervento: «La loro superiorità [sott. delle donne] la loro influenza, quelle che esse vantarono in ogni tempo, e proseguiranno senza dubbio a vantare, non fondano né saranno per fondarsi su la loro partecipazione diretta alla funzione del voto. La vera potenza della donna è nella femminilità, quella della quale noi uomini fummo e saremo ognora schiavi, ed io credo che il giorno nel quale essa, tra gli altri diritti già acquisiti, potrà aggiungere quello del voto, non potrà segnare la maggior vittoria da essa conseguita» (ibidem).

120 Oscillando tra aperture e censure, Marghieri riteneva la donna incapace di raggiungere traguardi di eccellenza: «molte donne non giunsero mai al grado di elevatezza intellettuale riservata all’uomo. Per esempio suonano il pianoforte a migliaia, ma non vi è alcuna che possa equipararsi a un Listz o a un Rubebstein; sono pittrici ma non ve n’ha alcuna che uguagli Salvator Rosa o Domenico Morelli; molte insegnano, ma nessuna si elevò agli altri gradi della cattedra […]. Parecchie ragioni potrebbero spiegare il fatto, e basta accennare a una sola che tutte le assorbe; ed è che la preparazione del cervello femminile è quasi ancora all’inizio e non ha potuto dare tuta la prova della resistenza e della sua forza produttrice. L’evoluzione è in cammino e non ha raggiunto la meta» (Marghieri, Il diritto di voto, cit., p. 21). Lo studioso sosteneva quindi la possibilità che solo determinante categorie di donne potessero esercitare il voto: «Volgiamo dare il voto alle ballerine, alle mime, alle chanteuses, alle saltatrici di corda, per quanto esse possano saper leggere e scrivere? Vogliamo costituire giù per le degradazioni una massa cieca e balorda di votanti perché diventi lo strumento dei partiti sovversivi o della Pubblica Sicurezza? […] Le condizioni da me indicate pongono, come si intende, fuori combattimento migliaia e milioni di donne. Ed è bene che per ora sia così di molte e per altre sia così sempre» (ivi, pp. 24 e 26). L’identificazione tra dignità personale, attribuzione di diritti e professione svolta sembra richiamare le antiche posizioni delle pratiche criminali (Cfr. Loredana Garlati, Il “grande assurdo”: la tortura del testimone nelle pratiche d’età moderna, in Acta historiae, 19 (2011), 1-2, pp. 95-98). Marghieri ribadì le proprie tesi in una conferenza rivolta alle donne cui si è fatto riferimento nelle pagine precedenti (v. nt. 87).

121 La riforma elettorale fu uno degli impegni principali di Lacava, cui dedicò anche un saggio: Sulla riforma della legge elettorale, Antonio Morano, Napoli, 1881.

122 AP, Discussioni, XXII Legislatura, Sessione 1904-1907, Volume X, I Sessione dal 30/01/1907 al 17/03/1907, Tornata del 25 febbraio 1907, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1907, p. 12314.

123 Ivi, p. 12315.

124 Ivi, pp. 12315-12317.

125 Ivi, pp. 12305-12310.

126 Ivi, p. 12319.

127 Ivi, 12320.

128Ibidem.

129 A tacere di avvenimenti già sufficientemente noti, si ricorda qui un’iniziativa promossa dalla rivista Unione femminile tra il 1903 e il 1905: un’indagine mediante questionario sul diritto di voto alle donne (amministrativo e politico), che distingueva ulteriormente tra quanti erano favorevoli a concederlo in linea di massima e senz’altra specificazione e quanti erano bendisposti a riconoscerlo alle italiane. «Non furono molte le risposte che ci pervennero; in compenso furono spontanee, serie, pensate» (Il voto alla donna? Inchiesta e notizia, Tipografia Nazionale di V. Ramperti, Milano, 1905, p. III). Il volume raccoglie le risposte di nomi noti e personaggi sconosciuti e merita di essere analizzato perché fotografa esattamente il clima di quegli anni. Così, se il deputato Giustino Fortunato senza remore era del tutto favorevole al suffragio femminile ritenendo la donna italiana «più savia, più equanime, più retta dei signori uomini», Enrico Ferradini opponeva un secco no a tutte le domande motivandolo semplicemente con un «sono antifemminista» (ivi, p. 1). Rina Monti, docente all’Università di Pavia, attestando che non tutte le donne rivendicavano tale diritto, ammetteva il voto amministrativo ma non quello politico di cui le donne non comprendevano ancora il valore, ignare, certo per colpa dei maschi, della vita pubblica, schiave del pregiudizio religioso che le rendeva docili strumenti dei preti, depositarie di un misoneismo antiscientifico (ivi, p. 1), in accordo con il ‘criminologo’ positivista Lino Ferriani (ivi, p. 2), con la contessa Evelina Martinengo-Cesaresco (ivi, p. 11) anche se con motivazioni diverse (si riteneva che senza voto le donne fossero in grado di influire di più e meglio sulle riforme sociali), con la contessa Spalletti Rasponi, presidente della federazione nazionale opere pie (ivi, pp. 11-12) e la segretaria delle stesse opere Dora Melegari (ivi, p.16), mentre la scrittrice Neera si dichiarava indifferente «perché non credo che per esso né con esso [le donne] abbiano a raggiungere la maggiore felicità» (ivi, p. 16). Favorevole al solo voto amministrativo riservato a talune categorie lo scrittore Antonio Fogazzaro (ivi, pp. 5-6); ironicamente adesiva la poetessa lodigiana Ada Negri, secondo la quale «se può andare a votare il mio portinaio, non so perché non debba andarci anch’io» (ivi, p. 6). Mortara coglieva anche questa occasione per ribadire che non riteneva il voto alle donne pericoloso, in ragione della schiavitù intellettuale delle donne alla superstizione religiosa e ai pregiudizi reazionari (ivi, p. 8). Ivanoe Bonomi era propenso a concedere il voto solo alle donne operaie e a quante visibilmente partecipavano alla vita intellettuale del paese (ivi, pp. 13-14). Cesare Lombroso ne prevedeva l’estensione solo al nord e al centro Italia, dove maggiore era il grado di cultura (ivi, pp. 17-18). Si nota una scissione tra le stesse donne, molte delle quali ritenevano prematuro il voto politico (e lo erano le aristocratiche e alcune tra quante avevano conseguito il maggior grado di istruzione, come Amalia Moretti-Foggia, medico-chirurgo e dottore in scienze naturali, o Paolina Piolti De Bianchi ‒ ivi, pp. 25-26 ‒ o la dott. Emma Modena ‒ ivi, p. 60 ‒, la dott. Elisa Norsa Gurrieri ‒ ivi, pp. 63-64), mentre per il voto amministrativo vi era concordanza su un’immediata concessione. Su 550 questionari le risposte furono 139: 53 uomini e 87 donne. Alcuni esiti: 81 risposte (33 di uomini e 48 di donne) esprimevano favore alla concessione del voto amministrativo e politico sia in linea di massima che in Italia. 27 risposte (4 di uomini e 23 di donne) erano propense al solo voto amministrativo in Italia, mentre per quello politico lo erano di massima ma non nella situazione attuale dell’Italia. 3 uomini negavano tanto il voto amministrativo che politico, due risposte negavano anche il voto amministrativo sia di massima che in Italia (per un’analisi di tutti i risultati cfr. ivi, pp. 107-108).

130 Le informazioni vengono offerte dallo stesso Giolitti nella seduta del 9 maggio 1912. Egli ricordava che la commissione era formata da «persone sulla cui autorevolezza non può cadere dubbio alcuno; fu composta, cioè, dei senatori Finali, Bodio, Brusa e Pasquale Villari, dei deputati Bertolini, Boselli, Colajanni, Finocchiaro-Aprile, Lucchini Luigi, Nitti, Rossi Luigi, e dei due Direttori generali della statistica e della istruzione primaria. Vennero chiamati questi due funzionari, essendo evidente che bisognava fare una indagine diligente sul grado di istruzione a cui è giunta la donna nelle varie provincie del Regno» (AP, Discussioni, XXIII Legislatura, Sessione 1909-1912, Volume XVI, I Sessione dal 30/04/1912 al 31/05/1912, Tornata del 9 maggio 1912, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1912, p. 19198).

131 AP, Discussioni, XXIII Legislatura, Sessione 1909-1910, Volume IV, I Sessione dal 18/11/1909 al 23/02/1910, Tornata del 19 febbraio 1910, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1910, pp. 5175-5177.

132 «Dico francamente che, fra le varie rivendicazioni del femminismo, la più giusta e legittima mi sembra quella che è diretta alla conquista del voto. Comprendo che si abbiano dei dubbi sulla parificazione dell’uomo e della donna nel diritto di famiglia e nella gestione del patrimonio; comprendo che si abbiano degli scrupoli nell’ammettere la donna all'esercizio delle professioni liberali e ai pubblici uffici, che possano trarla fuori dalla cerchia della famiglia o che non siano compatibili coi doveri della femminilità e della maternità; ma non comprendo che si tema un grave sconvolgimento nell’ordine sociale dal fatto che la donna sia chiamata ogni quattro o cinque anni a deporre in un’urna una scheda elettorale» (AP, Discussioni, XXIII Legislatura, Sessione 1909-1912, Volume XVI, I Sessione dal 30/04/1912 al 31/05/1912, Tornata del 2 maggio 1912, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1912, pp. 18973-18974). Dello stesso tenore l’intervento del deputato vastese Francesco Ciccarone: «non saprò mai persuadermi che si debba negare ad una donna colta quello che si concede ad un uomo ignorante» (ivi, p. 18983).

133 Ivi, p. 18974.

134 Ibidem. Ribatteva puntualmente a questa argomentazione Sidney Sonnino: «non si adduca come pretesto pel diniego di un diritto, il fatto che la maggioranza delle donne non abbia chiesto il voto. Ve lo ha forse chiesto mai la maggioranza degli analfabeti ai quali ora lo concedete?» (ivi, Tornata del 3 maggio 1912, p. 18995).

135 Ivi, Tornata del 2 maggio 1912, p. 18979.

136 Ivi, Tornata dell’8 maggio 1912, p. 19172.

137 Ibidem.

138 Ivi, p. 19173.

139 Ivi, Tornata del 9 maggio 1912, p. 19198.

140 «Se guardiamo anche all’intonazione dei discorsi pronunziati fin qui dai vari oratori, vediamo che molti hanno trattato questo argomento come una quistione accademica e teorica, come una quistione, diciamo la verità, di simpatia. Ma non penso che abbiano sostenuto seriamente il dovere della Camera oggi, mentre essa concede il voto ad altri 5 milioni di elettori, di estenderlo contemporaneamente almeno ad altri 6 milioni di donne, alle quali noi non abbiamo ancora riconosciuto i diritti civili, nel vero senso della parola, modificando la legislazione civile, che in questa parte è molto arretrata, ed alle quali non abbiamo neppure ancora dato il voto amministrativo» (ivi, p. 19199).

141 Ivi, Tornata del 10 maggio 1912, p. 19237.

142 Ivi, Tornata del 14 maggio 1912, pp. 19349-19392. Cfr. Il voto alle donne cit., pp. 50-51.

143 «Argomento pauroso e cabalistico […] ma che voltato in lingua piana, significa il timore che l’avvento improvviso di una massa di nuovi voti possa spostare la base dei singoli collegi elettorali» (Petizione presentata dal Comitato nazionale pro suffragio femminile nel marzo 1906, cit., p. 110).

144 Il voto alle donne, cit., p. 51.

145 Nella seduta della Camera del 30 luglio 1919 venivano illustrati i seguenti dati: 180.000 donne erano state impegnate nella produzione di munizioni («una maestranza che potrebbe trovare più larga ripercussione nel campo del lavoro»); in base ai rilievi del 1911, 5.121.000 donne circa erano impegnate nell’agricoltura e nell’industria e 8.559.000 nelle faccende casalinghe e domestiche. Si era innalzato anche il livello di istruzione: sempre secondo il censimento del 1911, il 45,8% della popolazione maschile era analfabeta, a fronte del 50% delle donne; e se nell’anno 1909-1910 32.656 donne erano iscritte alle scuole primarie, nel 1913-14 il numero era salito a 53.395 (AP, Discussioni, XXIV Legislatura, Sessione 1913-1919, Volume XVIII, I Sessione dal 13/07/1919 al 03/08/1919, Tornata del 30 luglio 1919, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1919, p. 20138).

146 Cfr. nt. 89.

147 «Dunque, io lumeggio alla Camera le gravissime difficoltà della questione e domando se la Camera si trova in grado di poter tutte queste difficoltà in questo momento affrontare» (AP, Discussioni, XXIV Legislatura, Sessione 1913-1918, Volume XV, I Sessione dal 12/02/1918 al 26/04/1918, Tornata del 26 aprile 1918, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1918, p. 16654).

148 Sposava in toto la tesi del Governo, tra gli altri, il romagnolo Meuccio (Bartolomeo) Ruini, radicale e destinato a un fulgido avvenire politico, il quale, pur tributando un omaggio al valore femminile espresso durante i duri anni di combattimento, riteneva opportuno avviare una preliminare riflessione sulle disposizioni normative che ancora nel codice civile condannavano la donna a una condizione di inferiorità (come ad esempio l’autorizzazione maritale), per poi procedere con l’ammissione al voto amministrativo, e solo alla fine promuovere la discussione sul voto politico (ivi, p. 16660).

149 Ivi, p. 16657. Vi erano state altre proposte, ritirate dopo l’intervento di Orlando, come quella ad esempio dell’avvocato pugliese Raffaele Cotugno che, tra l’altro, chiedeva di ammettere al voto tutti coloro che avessero compiuto il ventunesimo anno di età e le donne che ne avessero compiuti trenta, che fossero dotate di licenza elementare, e che avessero figli caduti in guerra, come se in questo modo, attraverso le madri, quanti si erano sacrificati per la patria potessero idealmente continuare a partecipare alla vita pubblica (ivi, p. 16659). Favorevoli al suffragio femminile furono pure Giovanni Merloni, esponente di spicco del socialismo riformista e futuro antifascista (ivi p. 16664) e l’avvocato Amedeo Sandrini (ivi, p. 16667).

150 «Ragioni di fisiologia, ragioni di economia, per la gara dei salari, in condizioni di difficile concorrenza, di mancato adempimento delle funzioni di educazione domestica e valorizzazione della prole indicavano le passività dell’ingresso delle falangi femminili nelle nuove funzioni di “terzo sesso” che andavano ad assumere» (ivi, p. 16670).

151 V. supra.

152 AP, Discussioni, XXIV Legislatura, Sessione 1913-1919, Volume XVIII, I Sessione dal 13/07/1919 al 03/08/1919, Tornata del 17 luglio 1919, Tipografia Camera dei Deputati, Roma 1919, p. 19677.

153 Ivi, Tornata del 29 luglio 1919, p. 20079. Il friulano antigiolittiano Luigi Gasparotto la ripresentò in identica forma il 23 marzo 1920, ritenendo l’estensione del voto alle donne non un provvedimento di eccezione, ma occasione d’ingresso della donna a parità giuridica con l’uomo nella massa elettorale italiana. Il parlamentare respingeva la proposta più limitata e spesso avanzata di attribuire l’elettorato solo a certe categorie privilegiate per censo o per cultura (AP, Discussioni, XXV Legislatura, Sessione 1919-1920, Volume II, I Sessione dal 22/03/1920 al 08/05/1920, Tornata del 23 marzo 1920, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1920, pp. 1237-1238).

154 In questo senso Gasparotto (AP, Discussioni, XXIV Legislatura, Sessione 1913-1919, Volume XVIII, I Sessione dal 13/07/1919 al 03/08/1919, Tornata del 30 luglio 1919, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1919, p. 20137).

155 Ibidem. A confutazione di uno degli argomenti cardine addotti contro il suffragio femminile (ossia la distrazione dai tradizionali compiti domestici), Gasparotto asseriva che nel mondo 70 milioni di elettrici avevano già sperimentato la bontà del voto del suffragio femminile. La constatazione abbatteva il pregiudizio secondo il quale «la donna potesse perdere, con la partecipazione alla vita pubblica, quel profumo di femminilità al quale tiene tanto l’altra metà del sesso umano, poiché la donna, elettrice ed eletta, ebbe nei Parlamenti a difendere virilmente soprattutto l’istituto della famiglia e della figliazione» (ibidem).

156 Ivi, p. 20138. Le donne del Trentino e dell’Istria godevano infatti dell’elettorato amministrativo. Il rischio era quindi di riprodurre quanto avvenuto all’indomani dell’unità d’Italia: l’annessione sarebbe apparsa più come una perdita di diritti che come un vantaggio politico.

157 Domenico Brezzi auspicava un’immediata concessione del voto alle donne per evitare che la Camera eletta, nominata con il solo suffragio maschile, fosse già svalutata sul nascere per essere l’espressione della volontà di una metà del paese (ivi, p. 20144).

158 Non mancava chi metteva in guardia dalle «difficoltà scenografiche della esplicazione del voto alle donne», da risolvere eventualmente con ginecei elettorali (ivi, p. 20144).

159 AP, Discussioni, XXIV Legislatura, Sessione 1913-1919, Volume XIX, I Sessione dal 04/08/1919 al 28/09/1919, Tornata del 3 settembre 1919, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1919, pp. 20714.

160 Di notevole interesse la contrapposizione sul punto tra Turati (contrario all’emendamento) e Micheli, il quale liquidava l’avversario politico così: «Mi meraviglio che proprio dai banchi del partito socialista si tenti la glorificazione del salariato dell’amore mentre da essi non dovrebbero che proclamarsi i diritti del salariato del lavoro» (ivi, Tornata del 4 settembre, pp. 20812-20819 e 20822-20824).

161 Ivi, pp. 20798- 20800.

162 Ivi, 20800-20801.

163 «L’esperienza di circa vent’anni mi porta a ritenere che la Camera non sa fare altro sforzo, dopo la sua costituzione, che quello di darsi un Governo per diventarne subito dopo serva umilissima, così non dubito che anche questa riforma, che qui dentro pochi vogliono, sarà presto legge dello Stato. Infatti nei corridoi molti miei bravi e buoni colleghi mi dichiaravano sino a stamane di essere contrari alla legge, ma lo spirito santo poi li ha illuminati così che quando sono entrati qui dentro hanno mutato completamente avviso. Fuori si parla contro e qui si vota in favore, e viceversa» (Ivi, p. 20803).

164 Ivi, 20801.

165 Ivi, 20804.

166 Ivi, 20808.

167 Ivi, Tornata del 5 settembre 1919, pp. 2839-2854.

168 Ivi, Tornata del 6 settembre 1919, p. 20899.

169 In particolare, Costantino Lazzari dichiarava il pieno appoggio dei socialisti, nonostante nutrisse dei sospetti in considerazione dell’appartenenza politica dei promotori: «noi sappiamo che fra le diverse correnti le quali oggi vogliono estendere il diritto di voto alle donne italiane, ci sono quelle che fanno i loro calcoli, nella speranza di potere in questo modo arginare la marea rossa che si è affermata così invincibile, così imponente nell’ultimo, periodo elettorale. Noi sappiamo che diverse correnti politiche pensano che l’animo e la coscienza delle donne saranno sempre legate come schiave dei vecchi atavismi del passato, incatenate dalle influenze trascendentali del misticismo, perché contano su quelle doti di spirito e di passione che sono molto più sensibili fra loro, che non fra noi uomini». L’adesione era dettata dal desiderio di realizzare finalmente una giustizia sociale, indipendentemente da calcoli politici: non vi era paura del voto delle donne «anche se potesse rappresentare qualche insuccesso per noi, non lo temiamo [sott. il voto] perché noi contiamo sulla dura esperienza della vita comune a tutti coloro che vivono per la lotta del pane quotidiano e perché intendiamo di servire la causa di rivendicazione universale del diritto alla vita politica per tutti quanti i cittadini, senza differenza di sesso» (AP, Discussioni, XXV Legislatura, Sessione 1919-1920, Volume VI, I Sessione dal 10/11/1920 al 29/11/1920, Tornata del 12 novembre, Tipografia Camera dei Deputati, Roma, 1920, p. 5515).

170 L’emendamento dell’onorevole Sandrini era sottoscritto anche da Scialoja, Meschiari, Celli, De Martino, Siciliani, Casaretto, Sighieri, Chiesa, De Capitani d’Arzago, Riccio, Federzoni, Nunziante, Di Giorgio, Di Salvo, Tosti, Paparo, De Andreis e prevedeva quanto segue: è riconosciuto il diritto elettorale alle donne nelle stesse condizioni stabilite per gli uomini. Tutte le disposizioni della presente legge e le rimanenti della legge comunale e provinciale sono ad esse applicabili.

171 Ivi, pp. 5502-5503.

172 Si affermava che gli emendamenti in realtà finissero per stravolgere la legge così come era stata presentata, toccando l’essenza del diritto di voto (ivi, Tornata del 16 novembre 1920, p. 5577). Per questo il cattolico Stefano Cavazzoni, relatore della legge, chiedeva formalmente la sospensione sull’emendamento, ma nella seduta del 18 novembre, in mancanza del numero legale, si rinviò al giorno successivo la votazione sulla sospensiva (ivi, Tornata del 18 novembre 1920, pp. 5647-5650). Va rilevato che nell’occasione Giolitti pubblicamente escluse qualsiasi mozione di fiducia da parte del Governo dichiarando inoltre che avrebbe personalmente votato a favore del suffragio femminile (Ivi, p. 5648).

173 Gaetano Salvemini, che il giorno precedente era stato tra i fautori della sospensiva, verificata l’esistenza di una larga maggioranza contraria ad ogni rinvio e favorevole invece a un intervento subitaneo a favore delle donne, modificava la propria opinione, tributando fiducia alle donne nella certezza che con la loro partecipazione alla vita politica esse avrebbero trasformato in pubblica virtù il proprio ruolo domestico con conseguente ‘moralizzazione’ della società (ivi, Tornata del 19 novembre 1920, pp. 5662-5663).

174 Ivi, p. 5664.

175 Nell’occasione Mariano d’Amelio ripercorreva la storia del suffragio femminile nell’intento di evidenziare come la legge rappresentasse un «notevole avvenimento nel nostro diritto pubblico ed una fase importante nel processo di parificazione del regime giuridico dei due sessi» [Mariano d’Amelio, Il suffragio elettorale femminile, inRivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia, 18 (1926), pt. 1, pp. 145-164. La citazione è a p. 146].

176 Il voto alle donne, cit., p. 67. Da qui sono tratti anche i dati riportati nel testo.

177 Cfr. Dal diritto di voto alla cittadinanza piena, a cura di Marisa Ferrari Occhionero, Casa Editrice Università La Sapienza, Roma, 2008.

178 Così Teresa Mattei il 18 marzo 1947 (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, Camera dei Deputati, Roma, 1976, p. 500).




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